La collaborazione tra Kamasi Washington (accreditato anche come autore del “concept”) e AJ Rojas risulta difficile da descrivere senza sminuirla. Tale è l’ambizione del progetto e il risultato ottenuto, che bisognerebbe far parlare solo le immagini.
Rojas, qui coadiuvato dalla fotografia di Evan Prosofsky e con Vincent Haycock alla guida della second unit (autore, fra le altre cose, della Odissey di Florence and the Machine) prosegue il suo percorso videomusicale ibridato con il documentario. Il suo sguardo attratto come sempre dagli ambienti urbani periferici, dalle comunità multietniche degradate. In una parola, dalla strada.
Rojas è l’interprete più lucido di quella tendenza che si è affermata con prepotenza all’inizio degli anni Zero e che vede in Gavras il suo caposcuola: parliamo di clip che, sfuggendo agli studios, si immergono nella realtà senza soggiacervi. […] Sulla scorta di un accurato lavoro di ricerca e immersione ambientale, Rojas riporta lacerti di contemporaneità in clip in cui nulla è casuale e tutto ha un valore rappresentativo e un significato, in cui un’ispiratissima scelta dei tempi conferisce respiro e verità alle immagini […] si muove con grande sensibilità in un territorio che, comunque, non si esaurise soltanto nella docufiction, ma sconfina nella surrealtà (Luca Pacilio, Il videoclip nell’era di Youtube, p.157)
Una strada, dunque, che non viene meramente documentata, bensì reinterpetrata come pure avviene in Truth, dove attraverso il montaggio, gli inserti immaginari e surreali, Rojas costruisce una sorta di epica, che ha poco di narrativo e molto di musicale. Potremmo fare il nome di Malick, soprattutto quello di Tree of Life, ma senza la fotografia perfetta e laccata, senza le carrellate immerse nella natura à la Natural Geographic.
I 14 minuti sono divisi in tre atti, ma – come detto – di narrativo c’è poco. Il primo e il terzo sono collegati tra loro dai personaggi e dagli ambenti. Nel primo atto, si ha un predominio dell’osservazione, con inquadrature fisse e mediamente lunghe. Descrivono una comunità multietnica, aprono squarci sulla quotidianità familiare, su piccole storie personali, ma senza svilluppare alcuna traccia in particolare.
Nel secondo atto, ispirato ad una foto di Roy Decarava, la macchina avanza lentamente (lentissimamente) mentre Washington si produce in un assolo di sassofono. Sul più bello, l’atto viene troncato, lasciando l’uomo di spalle nel mistero.
Dopo circa quattro minuti, comincia il terzo e ultimo atto. Qui immagini e personaggi del primo atto ritornano, montati però al ritmo della sarabanda conclusiva. È qui che AJ Rojas libera maggiormente la fantasia con quadri più eterogenei, ricchi di simbolismi e fantasie, senza però lesinare in riprese a mano dal tono documentario. Si susseguono inoltre anche veri e propri ritratti: primi piani in biano e nero o a colori, che suggeriscono – accompagnate dalle immagini di alcune nebulose, che già costellavano la prima parte – quella comunione umana che ritroviamo poi nella frase su cui si conclude l’opera: «Harmony of Difference».
Ecco la Verità di cui parlava il titolo, la verità del jazz, la verità multietnica americana. Per quanto, ci permettiamo di credere, l’opera di Rojas e Washington sarà in grado di trascendere il suo tempo, essa nasce pur sempre dal necessario confronto con la realtà politica statunitense. Abbiamo già visto in tanti diversi video l’eco del successo elettorale di Trump, e questo non fa eccezione. Il merito di Rojas è però quello di saper giungere all’essenziale; di traslare il problema in immagini nuove, dirompenti, capaci appunto di slegarsi dall’attualità.
Non a caso, nel 2015, quando si affermò un interessante filone di videomusica americana dedicato al conflittuale rapporto tra la comunità afroamericana e la polizia, Rojas se n’era uscito con un altro capolavoro, che per abilità di sintesi e acutezza delle immagini si stagliava sopra gli altri: Close Your Eyes (And Count To Fuck) per Run the Jewels. Rojas si conferma dunque regista consapevole e maturo, capace di interpretare il presente come solo i migliori registi sanno fare.