Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
Sembra sia andata più o meno cosi: in un bar newyorkese Andy Warhol scambia Loredana Berté per una cameriera, lei sta al gioco e gli porta un caffè. L’artista americano la trova molto simpatica e decide di ospitarla nella sua Factory. Nel corso di alcune prove sul nuovo disco in preparazione della Berté con la sua band, Warhol sembra innamorarsi delle note di Movie e le propone di fare un videoclip: Loredana non può certo rifiutare.
Era il 1981 e la Bertè era andata a vivere da poco negli States, spinta dalla curiosità per quel mondo così lontano e per trarne inspirazione per un nuovo disco. Questo disco sarà Made in Italy che, malgrado il titolo in inglese, era interamente in italiano ma con un sound decisamente diverso dai prodotti dell’industria della musica italiana d’inizio anni ’80. Talmente diverso da non riscuotere molto successo.
Più che “troppo avanti per i suoi tempi” era semplicemente un album fuori dal tempo e molto difficile da piazzare nel mercato italiano, oltre che impossibile da vendere nel mercato internazionale per via della lingua dei testi. Questo malgrado anche la foto di copertina fatta da un fotografo del livello di Christopher Makos, che dal quel servizio fotografico ricava ben due copertine per la Bertè, Made in Italy, appunto, ma anche Jazz qualche anno più tardi.
Probabilmente pure il videoclip venne poco capito o considerato, tanto che a distanza di qualche anno nel 1984 ne venne girato un altro, questa volta davvero “made in Italy” malgrado si rifaccia alla Russia di fine Ottocento, tra carrozze con cavalli, neve e castelli zareschi. Questo un video decisamente più classico, con la centralità della cantante nel tentativo di narrare una storia minimale (lei che arriva, appunto, in un castello con una carrozza). Un tentativo di rilanciare una canzone alla quale evidentemente teneva molto e che non ottenne nemmeno con questo secondo video promozionale il successo ricercato.
La seconda versione di Movie, realizzata nel 1984
Torniamo allora al video americano. Warhol e i suoi uomini, che nel frattempo avevano soprannominato la Berté “Pasta Queen”, puntano tutto sull’effetto dinamico delle luci newyorkesi. Il video infatti non è altro che un susseguirsi di luci, le insegne al neon dei palazzi della Grande Mela dettano il ritmo mentre Loredana danza in sovraesposizione. Come in un “movie” underground è tutto un flusso d’immagini scandite da interferenze, una ballata notturna nell’inferno della città che non dorme mai. Estasi video nel cuore dell’avanguardismo cinematografico. La sua natura “filmica” viene messa in evidenza esattamente a metà del videoclip, quando il “movie” prende vita nel suo senso più materiale. Vediamo la figura della Berté impressa in paradossali “fotogrammi video”, uno scorrere di fotogrammi che fotogrammi non sono. Una sorta di provino e di esperimento di luci colorate in puro stile pop art.
Vai così, vai così
Che una storia non è mai finita lì
Vai così, vai così
La tua vita puoi smontarla e rimontarla
Come un film
Loredana Berté, New York 1981. Andy Warhol che la guarda danzare e preparare la pasta. Una storia di un altro mondo e soprattutto l’inizio di una storia mai cominciata. La Berté se ne tornerà presto in Italia con altre canzoni e album decisamente più accettabili per il pubblico nostrano. La vedremo qualche anno dopo pure a Sanremo, con il famoso finto pancione, per quello che diverrà per lei ben presto un appuntamento fisso: in solitaria, con la sorella fino a partecipare in coppia con Gigi D’Alessio. Eppure era tutto iniziato così bene: Vai così, vai così…