Fotoromanzi – Il classico senza classicismo. Una rubrica di Alberto Beltrame
S01E01: Gianna Nannini – Fotoromanza (Michelangelo Antonioni), 1984
E non si può che iniziare così. Con qualcosa di misterioso, scomparso, paradossalmente perduto. Perché di questo videoclip, visto e rivisto negli scorsi anni, sembra scomparsa ogni traccia nel Web. Non si può più vedere per motivi di copyright, si trovano solo sparsi fotogrammi: foto, istanti d’immagini, visioni impresse su qualità video abusata e datata. Così diverso d’allora, nel momento in cui il nuovo diventava più affascinante del vecchio, quando il video cercava di prendere il posto della pellicola, la televisione che poneva l’ulteriore passo in avanti rispetto al cinema.
Correva l’anno 1984. Michelangelo Antonioni non fa più cinema, tra malattia ed esperimenti non del tutto riusciti. Non ne farà più, solo una telenovela qualche anno dopo con gli esterni girati da Wenders: la fine di un’epoca. Antonioni, perduto, aveva scoperto la magia ludica del video, prima applicandola nel suo cinema snaturato di estetica e poi provando ad entrare in qualcosa di diverso: Antonioni scopre il videoclip. Come artista perduto, si ritrova senza volerlo in qualcosa di nuovo per non morire. Giovanni Verga che scrive per il cinema ma non si firma per vergogna, D’annunzio che con un paio di nomi e didascalie viene scambiato per autore di cinema. Al Michelangelo basta meno, solamente accostare poche parole a poche immagini, qualche visione sbiadita e sonorità destinate a diventare cult.
Gianna Nannini è una giovante cantante, alternativa e spregiudicata. Un po’ amazzone, un po’ punk, alla ricerca dell’America. Identificata come donna, Antonioni decide di collaborare con lei. Prima però deve gettare le basi per tutto quello che un videoclip non deve essere: pura raffigurazione in immagini del testo della canzone. “Ti telefono o no” con un telefono e numeri che escono fuori, “una finta sul ring” con sovrapposizione di pugili, e poi, ovviamente, la “camera a gas”. Il regista cinematografico esordisce e termina la sua carriera nel videoclip così, radicale senza forse esserne troppo consapevole. Impone una nuova grammatica, la grammatica del “faccio quello che non si deve fare”, senza stile, senza classe, senza “antonionismi” palesi: probabilmente il suo più grande capolavoro.
La pura essenza degli anni ’80. L’eccesso e l’eccessivo, il manierismo dell’immagine, la poesia video del ralenti. Il risultato del bizzarro incontro tra Nannini e Antonioni è Storia, è la non storia di quello che avrebbe potuto essere se si fossero incontrati entrambi nel loro periodo più importante e non, come accadde, una giovane promessa della canzone italiana e un regista che ormai aveva già dato quello che doveva dare al cinema. Questo videoclip rappresenta l’imbarazzo della celebrazione e allo stesso tempo la celebrazione dell’imbarazzo.
Quello che sembra essere un saggio video-artistico di contestazione agli stilemi del linguaggio audiovisivo, non possiamo dimenticare che sia di fatto un video per promuovere un nuovo singolo. Completamente fuori dagli schemi, anche e soprattutto a vederlo ora a distanza di tanti anni, è sicuramente l’archetipo dei tanti video degli utenti privati di youtube, di coloro che vogliono rappresentare le canzoni amate attraverso ritagli d’immagini. Antonioni, regista stiloso, borghese e intellettuale è diventato il paradigma di ogni apprendista “fotomaker di youtube”, la professionalità estrema e cervellotica a contatto con il dilettantismo. La visionarietà di Antonioni raggiunge qui il suo apice.
Videoclip d’Italia nel sognante mondo degli anni ’80. Questo modesto prodotto “d’autore” di certo ha avuto molto successo, anche grazie a una canzone diventata tra le più conosciute del nostro Paese e quella firma inaspettata e così insolita. Se Fellini scelse la pubblicità e Rossellini i documentari e gli sceneggiati televisivi, Antonioni probabilmente fu tra tutti loro il più avanguardista. Il videoclip d’autore con il tempo diventerà una costante, e diversi e celebrati videomaker faranno il gran passo e finiranno per essere registi di cinema tra i più celebrati. Per Antonioni fu il canto del cigno, un cigno ormai sgraziato e sporco ma che aveva capito in quale direzione bisognava andare. La visionarietà di un visionario senile, tra video e un sogno perduto chiamato cinema.