Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
Un’estate fa. Ormai da un paio d’anni a questa parte ci siamo abituati a dire: “un’estate fa”. Perché ce lo siamo sempre detti, il tempo passa, le cose cambiano, ecc. Però da un paio d’anni sembra che ogni estate sia tutto completamente diverso. Nell’estate 2020 pensavamo con nostalgia a quello era stato l’anno precedente, l’epoca pre-covid, e allo stesso tempo c’era un illusorio sollievo per una situazione che sembrava tornasse verso la normalità.
Non durò poi tanto, e fu appunto l’estate del 2021 quella della quasi definitiva liberazione. Solo un anno dopo, invece, la situazione si è capovolta. Da un lato l’estate che questa volta sembra segnare il ritorno del covid (decisamente diverso dall’abituale pensiero estate = covid sta finendo) e dall’altro questa piccola cosa successa in Ucraina che ha cambiato leggermente gli equilibri politici, economici e sociali del mondo.
Ma il vero cambio, rispetto a un’estate fa, è stato il passaggio di testimone così apparentemente naturale tra gli immunologhi-virologi-infettivologi, e gli esperti di guerra ed equilibri geopolitici. Anche se questo equilibrio sembra ancora una volta minacciato da questa nuova ondata. E dalla probabile e annunciata fine di questo governo, che a tutto questo avrebbe dovuto pensare.
Il ritorno del covid sembra avere grandi possibilità di diventare il “nuovo” argomento centrale del dibattito estivo. Ritornerai, come un’estate fa, a prendere il controllo di ogni discussione. Eppure la guerra, sullo sfondo ma sempre presente, non potrà essere qualcosa di secondo piano. Allo stesso tempo l’interesse per l’argomento è scemato, tra bollette e inflazione, tra il solito teatrino della politica e le fondamentali discussioni a proposito del caldo.
Durante i primi mesi di guerra, abbiamo assistito al tandem irriducibile Mentana-Fabbri, cose di un’altra epoca, il ciclismo del passato, maratoneti a piedi scalzi, quel pugilato tutto cuore. E poi il faro, la luce da seguire nella nebbia, il riferimento più alto e totale: Lucio Caracciolo. Un’estate fa era il direttore di Limes, uno dei massimi esperti di geopolitica italiani, fondamentalmente uno che ha passato la sua vita a studiare equilibri mondiali che la stampa mediamente snobba o legge in maniera superficiale quando proprio deve parlarne. Lui no, Caracciolo è sempre stato la referenza più alta, l’intellettuale più ferrato sull’argomento, colui a cui chiedere per poterci capire qualcosa.
Un’estate fa non se lo cagavamo più di tanto. Ogni tanto parlava delle varie crisi politiche in giro per il mondo, avvertiva di possibili conflitti, rispondeva con affermazioni che sembravano fantascienza. E poi la guerra: Lucio Caracciolo é diventato la voce della verità. Caracciolo è all’improvviso utilizzato come jolly in ogni discussione. “Lo ha detto Caracciolo” è il mantra, sia per chi vuole dare le armi, che per gli scettici pacifisti, sia per coloro che pensano che Putin é impazzito ed è l’incarnazione di Hitler, che per coloro che “Beh, però sti ucraini han rotto eh…”.
É diventato così centrale in tutte le discussioni che, anche nello scemare dell’attenzione nei confronti del conflitto ucraino, si è preso con prepotenza lo scettro: qualsiasi sia l’argomento in discussione tutti vogliono sapere l’opinione di Caracciolo, e quando parla lui tutti zitti. Caracciolo non si interrompe, non si contraddice, si può solo muovere la testa con cenni di approvazione. Qualche volta possono fargli qualche domanda, ma solo qualche volta. Lucio Caracciolo è il nostro nuovo profeta.
D’altronde è stata una bella fortuna aver trovato qualcuno così preparato e dotato di talento – e di molta pazienza – per poter spiegare questioni così complesse. Allo stesso tempo, in un’epoca sempre alla ricerca di nuovi guru, Caracciolo è diventato il nuovo vate. Parlando sempre meno di guerra, Caracciolo è la nuova bussola di tutto. Dalla politica al caldo bisogna chiedere a Caracciolo. Dal calcio alla giustizia in Italia, sappiamo sempre a chi chiedere. Tutto sembra molto coerente, siamo passati dai virologi che cantano e parlano di politica ai direttori di riviste di geopolitica che parlano di sport.
Di chi fidarsi quando pure Draghi, secondo Di Battista, non capisce nulla di economia e Bergoglio, il Papa moderno e rivoluzionario, il Papa amato da tutti che dice sempre cose così interessanti e brillanti, si ritrova a essere “censurato” per le sue prese di posizione anti-abortiste, che poi ha non ha mai nascosto, a proposito della decisione della consulta americana.
L’anarchia del giornalismo italiano non poteva essere messa più in evidenza dalla recente morte di Eugenio Scalfari, il decano del giornalismo italiano. Un secolo di giornalismo incarnato in una persona che, malgrado qualche svarione negli ultimi anni, è stato pure lui la bussola di un pensiero nella nostra società. Il riferimento per i progressisti e pure lui, un po’ alla Caracciolo, un uomo che non poteva essere mai smentito nell’ultimo decennio, malgrado frasi come “meglio Berlusconi che Di Maio”. È vecchio, è la storia del giornalismo di sinistra in Italia, non possiamo contraddirlo.
D’altronde lui ne aveva viste di cose, e tante ne aveva scritte fino alla folgorazione per il Papa, ma nessuno osi dire che si era rincoglionito. Sia mai. Ma questo, oramai, è tante estati fa. Adesso la prima crisi di governo della quale Scalfari non potrà parlare. Lui che li aveva visti i tutti i governi dell’Italia repubblicana, che aveva conosciuto tutti i personaggi di questo mondo meraviglioso della politica all’italiana.
E la prossima estate saranno dieci anni dalla morte di Franco Califano. Fu lui a tradurre nel 1972 il testo di Une belle histoire, la canzone cantata da Michel Fugain che venne portata al successo in Italia dagli Homo Sapiens , per poi essere riproposta in diverse altre cover, tra cui quella dei Delta V. Tante estati fa. Un mondo diverso, tanti mondi diversi. Delle guerre diverse e tanti governi fa. Un’era dove le bussole, i guru, i riferimenti era spesso ricercati nell’arte da un lato e nel giornalismo dall’altro. La politica come faro, spesso, e il sogno di un futuro migliore come il motivo per continuare. Tante estati fa.
E poi arrivava sempre l’estate, l’estate era, per coloro che sono cresciuti negli anni Novanta, il Festivalbar. I cantanti che cantavano in playback, l’arena di Verona, tante ma davvero tante estati fa.