Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
La rubrica di Videoclip Italia dedicata ai videoclip italiani del passato, inizia la nuova stagione con un articolo che non parla per nulla di videoclip (malgrado il garoto degli “ingegneri delle Hawaii” possa far credere diversamente). Ma che mette in chiaro, ancora una volta e in maniera più che mai diretta, lo spirito che guida questa sezione: l’esplorazione dell’Italia musical-popolare, nei suoi colpi di genio, nella sua bonaria cialtroneria e nelle sue contraddizioni più palesi. Ecco, in questo senso vogliamo iniziare parlando di discografia italiana alla prova dell’internazionalità e, forse sorprendentemente, viceversa. Tra la copia, l’omaggio e la leggiadria del canto all’italiana.
Con riferimento al mitico panorama degli anni Sessanta e Settanta, la particolarità è che ci occuperemo non tanto delle cover di canzoni più o meno “rubate” dal mercato straniero e fatte proprie nel contesto commerciale italiano, quanto del curioso fenomeno opposto. Musicisti non italiani, alle volte molto celebri, che hanno preso canzoni nostrane per renderle canzoni proprie, e i curiosi casi di andate e ritorni, doppi sensi per canzone trascurate, poi celebrate e infine ri-editate. Ma facciamo un passo alla volta.
Dal Vasco Rossi-Radiohead di Ad ogni costo fino al Masini-Metallica di E chi se ne frega ne abbiamo viste davvero di ogni, anche in anni relativamente recenti. Senza soffermarci troppo sugli eccessi alla Nino D’Angelo, possiamo dire che tra imbarazzi e strane invettive, l’interesse per la musica internazionale è stato ovviamente sempre molto accesso da parte dei musicisti italiani. Tanti successi per le cover italiane di brani stranieri, soprattutto in un mondo meno globale come quello del passato, dove le canzoni di fatto arrivavano al pubblico italiano direttamente in versione italiana senza che si sapesse poi che l’originale fosse un’altra.
D’altronde anche grandissimi come De André hanno fatto della “cover all’italiano” una vera e propria filosofia con la quale hanno fatto scoprire anche al pubblico nostrano grandi musicisti che allora erano ben poco conosciuti in Italia. Il fermento più importante ci fu negli anni Sessanta e Settanta, un po’ appunto per il mondo pre-globalizzato e un po’ per l’incredibile interesse e spazio che la musica stava prendendo nel pubblico, in particolare in quello giovanile. E proprio di questi anni ci occuperemo, andando a scoprire le cover fatte in quel periodo di tempo (eccezione fatta per il video d’apertura, che in ogni caso é a sua volta una cover di una versione fatta nel 1967 dagli Os Incriveis, e poi incisa anche l’anno dopo da Jean Carlo).
L’elenco delle canzoni celebri, che molti di noi nemmeno sapevano fossero delle cover e non dei pezzi originali, sarebbe davvero molto lungo. Da Scende la pioggia (Eleonore– Turtles) cantata da Morandi a Ragazzo triste (But You’re Mine – Sonny and Cher) interpretata da Patty Pravo, passando per le tante incise dagli specialisti del settore Equipe 84: Tutta mia la città (Blackberry Way– The Move), Io ho in mente te (You Were On My Mind – Barry McGuire), Un angelo blu (I Can’t Let Maggie Go – Honeybus), Bang Bang (Bang Bang – Sonny and Cher, con testo riscritto in italiano, anche se non accreditato, da Francesco Guccini). Ma anche canzoni come Una bambolina che fa no no no (La poupée qui fait non – Michel Polnareff), Bandiera gialla (The Pied Piper – Crispian St. Peter), Ma che colpa abbiamo noi (Cheryl’s Going Home – Bob Lind) o A chi (Hurt– Timi Yuro) sono delle cover.
Altre sono più alla luce del sole, in quanto l’originale è fin troppo conosciuto per poter essere trascurato. É il caso d’altri specialisti del settore come i Dik Dik: Sognando Califorinia (California Dreamin’ – The Mamas and Papas) e Senza luce (A Whiter Shade Of Pale – Procol Harum) o dei Nomadi: Ho difeso il mio amore (Nights In White Satin– Moody Blues), Come potete giudicar (The Revolution Kind – Sonny and Cher), Un figlio dei fiori non pensa al domani (Death Of A Clown – The Kinks) e Ti voglio (I Want You – Bob Dylan), e poi ancora Sono bugiarda della Caselli (I’m A Believer – Neil Diamond) o L’ora dell’amore dei Camaleonti (Homburg– Procol Harum).
In un vecchio articolo di Fotoromanzi si accennava alla storia di Pregherò di Celentano:
“Siamo negli anni Sessanta e si viveva la moda delle cover di canzoni straniere che venivano italianizzate per renderle accessibili al pubblico nostrano. Niente di male, in fondo erano sì copie però autorizzate. Eppure, nel 1962 Celentano incise Pregherò che tra gli autori vedeva lo stesso cantante e Ricky Gianco, senza quindi ricordare che il brano era una cover di Stand By Me di Ben E. King. Il tutto si scoprì qualche anno più tardi, quando Celentano cercò di pubblicare in modo sfacciato la canzone per il mercato straniero a suo nome e, scoperto, venne portato a sua volta in tribunale dove fu costretto a cedere la paternità della canzone.”
In un certo senso questa faccenda, al di là della presunzione sbruffona di Celentano e del suo Clan, fa ben capire quanto queste canzoni erano diventate parte stessa della cultura italiana. Tanto celebri e tanto celata era la versione originale che spesso, semplicemente, si dimenticava che italiane non lo erano per nulla. Senza dimenticare che parliamo di un’epoca dove le leggi sul copyright non erano ancora molto evolute, soprattutto a riguardo degli scambi tra diverse nazioni e continenti. E cosí fu possibile pure pensare di fare una cover in spagnolo di Pregherò, malgrado questa non fosse una composizione originale: una cover (senza averne i diritti) di una cover (anch’essa fatta senza averne i diritti).
Ma più che le questioni legali, qui c’interessa entrare in questo flusso promiscuo di scambi e interazioni tra musicisti italiani e stranieri. Perché di fatto non sono poche nemmeno le cover fatte a partire da composizioni in origine italiane. Forse non abbiamo in Italia un caso tanto clamoroso come quello accaduto in Francia a Claude François, dove la sua Comme d’habitude diventa nella cover in inglese una delle canzoni più conosciute di tutto il secolo XX (My Way cantata da Frank Sinatra); allo stesso tempo però dei veri e propri Big prenderanno melodie italiane per trasformarle e venderle nel mercato mondiale, per esempio Petula Clark, Tom Jones, Dean Martin e pure sua maestà Elvis Presley (e non solo per le ben note versioni di ‘O Sole mio e Torna a Surriento).
Iniziamo allora proprio da Elvis. La cover che farà di Io che non vivo di Pino Donaggio diventerà con il tempo, al pari di It’s Now or Never e Surrender, un vero e proprio classico del suo repertorio. Meno conosciuta invece è Ask me registrata a partire da Io di Domenico Modugno. Ma non c’è solo Elvis nella lunga lista di “cover dall’italiano”, che comprende come già detto Petula Clark, che inciderà con successo If Ever You’re Lonely (cover di Lontano dagli occhi di Sergio Endrigo) e in francese Maintenant tu veux partir (cover di Se mi vuoi lasciare di Michele), Dean Martin con una versione di Grazie, prego, scusi e poi Tom Jones che farà sue L’ultima occasione di Mina (che diventerà Once There Was a Time), Alla fine della strada cantata dai Casuals e Junior Magli (Love Me Tonight) e sopratutto una cover di Gli occhi miei (Dino / Wilma Goich) che diventerà, sotto il titolo di Help Yourself, un grande successo per il cantante gallese.
Potremmo poi ritornare sullo stesso Ben E. King, l’autore espropriato della paternità di Stand By Me, che fece una cover di una canzone italiana: Uno dei tanti di Joe Sentieri che diventa I (Who Have Nothing). E poi pure l’altro grande “defraudato” Claude François che inciderà una versione di Deborah (interpretata in origine da Fausto Leali e Wilson Pickett) e poi Ce soir je vais boire (cover della mitica Stasera mi butto di Rocky Roberts).
Ci sono anche state delle cover da parte di due tra i più grandi protagonisti dell’epopea rock degli anni Settanta. Da un lato Robert Plant che nel 1967, poco prima di diventare il cantante dei Led Zeppelin, inciderà una versione di La musica è finita di Umberto Bindi e Franco Califano (resa celebre dall’interpretazione di Ornella Vanoni) sotto il titolo di Our Song. Dall’altro lato Mick Ronson, il carismatico leader degli Spiders from Mars e primo collaboratore di David Bowie negli anni Settanta. Ronson inciderà ben due cover di canzoni italiane piuttosto celebri: Io me ne andrei di Claudio Baglioni (Empty Bed) e una straordinaria versione di Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi di Battisti (Music Is Lethal).
L’elenco sarebbe davvero lunghissimo, forse infinito, soprattutto se ci mettessimo a citare tutte quelle cover fatte da autori sconosciuti che videro in certe canzoni italiane dei possibili successi nei loro paesi, spesso lontanissimi per stili musicali e interpretazioni. Solo a titolo di curiosità possiamo inserire in questa lista: la versione brasiliana di 4 marzo 1943 (Minha Historia– Chico Buarque de Hollanda), le tante cover in francese di Dalida tra cui Anima mia e La partie de football, lo specialista di cover in spagnolo Jimmy Santy (tra le altre: Mira como me balanceo, Sabor a salado, No soy digno de ti), ma anche Quelli belli come noi delle gemelle Kessler in lingua greca (Kantsonissima – Maro Dimetriou), Rose rosse in finlandese (Onni Yksille Jaa – Tapani Kansa), una Tintarella di luna giapponese dei The Peanuts (Getsuei no Napoli, molti anni prima della mitica versione dei Melt Banana), quelle croate di Azzurro (U plavo jutro – Ivo Robić) e La bambola (Igračka – Gabi Novak) e poi anche una versione olandese di un altro successo di Patty Pravo Pazza idea (Laat me alleen – Rita Hovink).
E proprio legata a Patty Pravo è la storia singolare di una “cover andata e ritorno”. Parliamo della canzone Il paradiso della vita scritta da Battisti/Mogol nel 1968 per Ambra Borelli (La Ragazza 77) e passata completamente inosservata fino a quando non ne venne fatta una cover in inglese da Amen Corner che ebbe un discreto successo. E questo portò i discografici italiani a voler incidere una “cover della cover” o meglio una “cover andata/ritorno”, ovvero una re-incisione del brano sotto nuovo titolo e interprete (ma con lo stesso testo): Il paradiso cantata da una giovanissima Patty Pravo, che diventerà un grande successo in Italia.
In questa sede non si è voluto parlare poi del fenomeno delle “auto-cover”, ovvero dei rifacimenti fatti dagli stessi interpreti italiani in una lingua straniera per il mercato estero (Battisti ad esempio fece uscire un intero album Images di poco successo) e neppure delle versioni in italiano fatte da cantanti stranieri delle proprie canzoni (in un precedente fotoromanzo dedicato a Bowie avevamo fatto ascoltare la cover da lui cantata in italiano della sua Space Oddity). Vogliamo chiudere però come avevamo iniziato, con la stessa canzone ma questa volta in italiano. E con un’interprete sorprendentemente più a suo agio con la nostra lingua che con il nostro pubblico.