In luogo delle consuete e un po’ noiose classifiche di fine anno (che pure ci causerebbero un po’ di imbarazzo adesso che organizziamo un premio aperto a tutti i videoclip italiani), quest’anno abbiamo deciso di concentrare i nostri sforzi nell’analizzare i trend e i temi principali che hanno caratterizzato l’annata appena conclusa.
Il videoclip rimane un terreno prediletto per la sperimentazione tecnologica, che nel 2022 ha significato soprattutto animazione prompt-based, realizzata con intelligenze artificiali. Queste, pur trovandosi ancora in uno stato embrionale, hanno segnato l’annata, ben al di là del video, come ha dimostrato di recente la Chat GPT-4 di cui si è molto parlato. Nella prima parte, passiamo in rassegna alcuni dei video più rilevanti, mettendo in evidenza limiti e potenzialità dell’AI come mezzo espressivo, ma anche provando a immaginare l’impatto che queste nuove dirompenti tecnologie potranno avere a breve sull’industria culturale.
Però l’annata è stata caratterizzata anche da un evidente calo quantitativo delle produzioni. Viene da chiedersi – una volta di più – se il videoclip non sia morto. Piano con i de profundis, ma i segnali non sono dei più rassicuranti. Tanti i motivi alla base: nel corso dell’articolo abbiamo provato a isolarli e analizzarli, affidandoci alle impressioni degli addetti ai lavori e azzardando pure qualche previsione futura (però occhio: di solito non ci prendiamo mai).
Il futuro del videoclip, va da sé, dipende dal futuro dell’industria musicale, che negli ultimi anni è stata scossa alle fondamenta dalle nuove tecnologie e in particolare, più di recente, dall’internet delle piattaforme – dove a cambiare le carte in tavola c’ha pensato il successo sempre più globale di TikTok. In questo articolo ci concentreremo il più strettamente possibile sul video, tralasciando alcuni aspetti fondamentali per la discografia e quindi lasciando l’analisi incompleta. È chiaro però che, in un panorama mediatico sempre più frammentato e in continua evoluzione, il futuro del videoclip per come lo conosciamo sia in gioco e con esso anche il modus operandi dei registi. Ma non è detto che sia un male.
Midjourney è il regista dell’anno. E ha già rotto i co*****i
L’animazione AI è stato il trend più significativo del 2022. Queste nuove tecnologie sono destinate a trasformare l’industria culturale.
Cominciamo dal trend più evidente dell’anno e dalle potenzialità del suo impatto: l’animazione AI. Sono ormai ovunque, escono dalle fottute pareti: sono i video animati fatti a colpi di prompt utilizzando le intelligenze artificiali. Da Exotic Contents di Max Cooper, in cui i prompt sono frasi del filosofo Ludwig Wittgenstein, ai King Gizzard & The Lizard Wizard di Iron Lung, dove l’animazione AI si fonde alle manipolazioni analogiche di un sintetizzatore video, passando per uno dei tanti travelling in avanti infiniti come quello di Hidden Places per gli italiani Comaneci e chissà quanti altri ancora: questa nuova tecnologia affascina per il risultato estetico e le sue potenzialità, anche inquietanti, ed è stata subito inevitabilmente adottata da registi, videomaker di ogni risma e financo musicisti improvvisati animatori.
Anche il più avanzato degli algoritmi attualmente disponibili finisce però per essere vittima del cortissimo span di attenzione e della spasmodica necessità di novità che definiscono gli spettatori di oggi. Già dopo le prime visioni, infatti, questi videoclip cominciano a stancare, anzi ben pochi riescono a sostenere la durata del brano senza tediare, a meno che non siano sorretti da un lavoro di concetto e da una struttura studiata, che aggiunga valore a quello che altrimenti è un trip sì affascinante, ma anche un po’ fine a sé stesso. Insomma, Midjourney e Stable Diffusion sono i registi dell’anno, ma hanno già fracassato i cabasisi.
A lasciare il segno sono stati infatti solo quei lavori in cui l’intelligenza artificiale viene tenuta al guinzaglio di un concept solido – penso a Bad Man dei Disturbed – o integrata all’interno di animazioni “umane” (qui il caso di studio è Ossature di Ouri), oppure ancora quando troviamo coincidenza tra mezzo e concept come in Infinity di Azel Phara, dove Joris Baquet immagina la AI ribellarsi al “regista”, prendendo il controllo dell’animazione e del computer su cui sta lavorando. Possiamo concludere che (almeno per ora) il fattore creativo umano è ancora decisivo al fine di realizzare un prodotto di qualità e non un mero orpello.
Mi pare però opportuno citare anche l’ultimo videoclip degli Hot Chip, che non è stato realizzato ricorrendo a questi nuovi algoritmi, ma che affronta il tema con sagacia. Il regista Maxim Kelly vi mette in scena il primo videoclip diretto e interpretato da una AI. Nel meta-videoclip la sceneggiatura è ridicola, un improbabile ibrido tra il videoclip di una boy band anni ’90 e la storia d’amore di due robot in odore di All is Full Of Love. Sembra quasi il risultato del primo prompt buttato lì.
Si tratta, insomma, di un videoclip mediocre, come ce ne sono tanti, ma forse la mediocrità è proprio il livello cui le AI sono destinate. L’obiettivo vero di Broken è però ancora una volta l’industria discografica e la sua pretesa di potersi garantire successo e vendite con formule sempre più economiche, tanto sicure quanto poco creative. L’automa come metafora della pop star dall’immagine calcolata e sempre uguale, conformista e inoffensiva, con cui l’industria discografica inonda il mercato e che magari in futuro saranno suggerite da un fantomatico algoritmo infallibile.
Perché le questioni sono (almeno) due: come i lavoratori dell’industria culturale utilizzeranno le intelligenze artificiali e come le utilizzeranno le corporation. Al di là dei trend e delle mode, infatti, e ben al di là del discorso legato ai videoclip, queste nuove tecnologie sono qui per restare. È davvero difficile fare previsioni sull’impatto che l’AI avrà sulla società, ma in questo ambito possiamo limitarci a osservare come sia facile immaginare che l’impatto sull’industria culturale sarà dirompente anche a breve termine.
In una prima fase, queste macchine verranno utilizzate dai professionisti come strumento di assistenza/potenziamento (la cosiddetta centaurizzazione): immaginiamo un regista che abbia bisogno di creare un visual treatment o uno storyboard, oppure semplicemente cercare ispirazione; uno sceneggiatore che voglia rivedere la struttura della sua storia o che si rivolga alla macchina per risolvere un’impasse narrativa; un montatore che voglia risparmiare del tempo e faccia così abbozzare un primo montaggio a un futuribile programma di editing che sincronizzi già alla perfezione i tagli (diverse app, destinate a influencer e semplici user di Instagram e TikTok, offrono già questo servizio). Questi sono solo alcuni esempi degli usi possibili, come dicevamo è arduo poter prevedere o anche solo immaginare come queste tecnologie potranno evolvere. Siamo ancora ben lontani (un decennio? qualche anno?) dall’automatizzazione dell’industria culturale, ma è lampante come già i primi sviluppi di questa nascente tecnologia trasformeranno moltissimo il lavoro dei creativi. Figurarsi poi come le major potranno utilizzare questi algoritmi a fini predittivi e strategici – delegando scelte un tempo affidate non solo alle analisi di mercato, ma anche all’intuito e allo scouting dei discografici – nonché per tagliare costi e personale.
Per quanto concerne strettamente il campo del videoclip, siamo pronti a scommettere che si continuerà a sperimentare con gli algoritmi più avanzati, ma che nel 2023 questo trend si confermerà anche in senso negativo, con videoclip fatti letteralmente col pilota automatico: tappezzeria a buon mercato per le major e soluzione “creativa” per chi invece il budget proprio non ce l’ha (Stable Diffusion sarà il nuovo “il video me lo ha fatto mio cugino”).
Il videoclip continuerà ad essere il terreno prediletto per la sperimentazione di nuove tecnologie come nel caso dei ledwall curvi.
Un breve inciso lo merita anche un’altra tecnologia che ormai si è affermata come standard produttivo cinematografico e pubblicitario, ovvero l’utilizzo dei virtual studios realizzati con enormi ledwall curvi. Noti per essere stati utilizzati nella produzione di The Mandalorian, i ledwall rappresentano il superamento del chroma key/green screen, consentendo di girare sul set in presenza della computer grafica – fungendo questa da supporto ad attori e registi e soprattutto facendo risparmiare tempo e denaro in post-produzione.
Sul fatto che funzioni non ci sono molti dubbi, basti guardare gli enormi investimenti fatti per diffondere questa tecnologia, non ultimo un set costosissimo a Cinecittà. Resterà? Vedremo, ma sicuramente nel breve periodo l’ambito del videoclip ha il potenziale per essere il territorio di maggiore sperimentazione in questo senso. Già lo è stato in Italia, con un videoclip letteralmente di test qual è stato Inuyasha di Mahmood diretto da Simone Rovellini (parliamo del gennaio 2021, un secolo fa), ma in questa sede dobbiamo assolutamente segnalare il promo che Felix Brady ha diretto per Greentea Peng, spingendo moltissimo sulle potenzialità espressive del mezzo, che vanno ben al di là dell’audiovisivo in senso stretto (pensiamo al teatro e alle installazioni museali ad esempio).
Reels Killed the Video Star
Dalle nuove tecnologie alla tiktokizzazione dell’internet: lo span di attenzione ce lo siamo giocato e mo’ che ne sarà del videoclip?
Tik Tok non è più una novità, ma la “tiktokizzazione di internet” è diventata realtà quest’anno, in cui ci siamo ritrovati Instagram invaso da reels non richiesti e la pubblicità degli YouTube Shorts ai Mondiali di Calcio. E TikTok ha rappresentato la più grande trasformazione recente dell’industria musicale, al punto in pratica di diventarne una parte a sua volta con il lancio di SoundON a marzo. Per i discografici, la monetizzazione su TikTok è ancora “far” dall’essere «fair», come ha spiegato Eleonora Bianchi di Universal a Rockol, ma «a livello di discovery ha soppiantato YouTube».
Qui la buona notizia sarebbe che i video sono ormai ovunque, sempre più capillari, pressoché inscindibili dal discorso musicale. Ma la cattiva notizia è proprio che i video sono ormai ovunque: da un lato i formati brevissimi sono sempre più in voga, al punto che secondo il capo di YouTube Music Lyor Cohen saranno proprio questi a salvare la musica, e dall’altro le tecnologie per realizzare video e montaggi sono ormai completamente democratizzate, davvero a disposizione di moltissimi, ormai sempre più navigati, prosumers. In questo panorama, il videoclip rischia di uscirne totalmente marginalizzato – primitivo, troppo lento e lungo per questi tempi acceleratissimi, un cimelio dell’anteguerra – e i videoclippari con loro.
Se un cantante può fare milioni di visualizzazioni o più semplicemente diventare famoso filmandosi con un iPhone, qualcuno ai piani alti dell’industria discografica potrebbe giustamente iniziare a farsi due domande sul senso di investire decine di migliaia di euro per fare un videoclip. Certo il videoclip, al contrario dei balletti virali di TikTok, è in grado di dare ben altra sostanza all’immagine di un artista: oltre all’allure, i videoclip di una pop star danno vita al suo immaginario, ne scandiscono le ere, ne sostanziano una indispensabile autonarrazione con maggiore complessità di qualsiasi altro formato breve.
Ma queste cose avranno un senso e un valore anche domani? Oggi le star si raccontano sempre di più sui social e al tempo stesso la logica delle pubblicazioni musicali è già in fase di trasformazione, tanto che pure l’idea stessa di album è ormai in discussione e più di qualcuno ne ha decretato, forse frettolosamente, la morte. Con esso, anche le ere estetiche delle pop star – associate di volta in volta a un nuovo album e raccontate attraverso i videoclip – potrebbero finire in soffitta.
Il consumo di video streaming legato alla musica è risultato in crescita anche nel primo semestre 2022 negli Stati Uniti (fonte Luminate Mid Year Report 2022), ma molto meno (6,3%) rispetto all’audio streaming (+12,4%), rappresentando quindi una fetta sempre minore di mercato. Come questo consumo sia poi collegato a YouTube e in particolare ai video musicali non è dato sapere. Nell’ultimo report ‘21-’22, YouTube afferma di aver distribuito all’industria discografica 6 miliardi di dollari, segnando una crescita spaventosa rispetto solo ai dodici mesi precedenti, quando distribuì 4 miliardi di dollari. Questa crescita coincide però con il lancio di diverse iniziative e una varietà senza precedenti di formati legati alla musica e in particolare include la raccolta pubblicitaria attraverso user generated content (che vale il 30%). Il paradosso è che, contestualmente a questa crescita, si è osservata una contrazione nella produzione di video musicali (si tratta di una stima empirica, vedi più avanti) e, nonostante la crescita delle entrate da YouTube, per l’industria musicale i singoli stream sul tubo restano i meno redditizi. Di fronte a questi dati, pur frammentari, la scelta di ridurre gli investimenti sui videoclip appare logica e comprensibile.
Tutti i registi con cui abbiamo parlato recentemente stimano il videoclip come qualcosa di fondamentale: un regalo troppo prezioso per non farlo ai fan; una stampella indispensabile per veicolare la propria immagine. Ciononostante, già da anni spopolano lyric video e visual videos in cui girano in loop Spotify Canvas, pronti a drenare in qualche modo views e relativi compensi su YouTube, affiancandosi ai videoclip ufficiali sicuramente molto più costosi, ma quanto in fondo più remunerativi? In uno scenario in cui più aumenta il consumo di video, più sono i formati, specialmente brevi o brevissimi, che fanno concorrenza al videoclip sia dal punto di vista della presa sull’immaginario musicale, sia dal punto di vista della rendita commerciale, e tenuto conto della grande incertezza economica in cui viviamo, è evidente che il videoclip corre il rischio di trovarsi in mezzo a una tempesta perfetta, preso tra i tagli degli investimenti delle discografiche e il disinteresse crescente del pubblico.
La traversata del deserto: il videoclip (italiano) forse è morto n’atra vota
Voci apocalittiche e crisi cicliche: cosa vogliono farne del videoclip le case discografiche italiane?
A riprova di ciò, si è notato come le uscite videomusicali in Italia si siano chiaramente ridotte durante l’ultimo anno. Si tratta di una stima empirica, non misurata e difficile da misurare, ma confermata da tutti gli addetti ai lavori che abbiamo interpellato o che ci hanno direttamente segnalato la cosa. Premesso che non è per forza un male che si produca meno (purché si produca meglio!), però meno produzioni significa anche meno lavoro, meno soldi e quindi a cascata problemi economici per tante persone che di audiovisivo campano e hanno (dovrebbero avere) il diritto di farlo dignitosamente…
Per farsi un’idea di come il videoclip sia ritenuto ormai superfluo, basta guardare a due uscite discografiche radicalmente opposte per genere musicale e storia degli artisti, ma accomunate dal fatto di poter essere considerate entrambe un “evento”. Ci riferiamo al successo di vendite di Thasup, Carattere Speciale, e all’atteso ritorno dei Verdena con Volevo Magia: entrambi questi album non sono stati accompagnati da videoclip veri e propri, se si escludono i visual video firmati da Erika De Nicola da un lato e il misero lyric video di Chaise Longue dall’altro. Stando a queste scelte di marketing, è chiaro come sia la Sony che la Universal abbiano considerato il videoclip inutile per raggiungere due target completamente distinti: tanto per un artista sulla cresta dell’onda, e seguito soprattutto dal pubblico giovane o giovanissimo, quanto per una band dalla fan base solidissima e un po’ più in là con gli anni.
È forse il caso di rispolverare un grande classico: sarà mica morto il videoclip? «Il videoclip non morirà mai», afferma convinto Antonio “Gno” Sarubbi, fondatore e general manager della Maciste Dischi (Gazzelle, Fulminacci e tanti altri). In una breve telefonata il discografico indipendente conferma le nostre sensazioni: i budget una volta destinati ai videoclip sono stati erosi dai nuovi formati brevi. «Il videoclip non morirà mai», ribadisce, «ma ha sicuramente perso importanza in relazione a un paio di questioni: la prima è puramente pratica, siamo arrivati in un momento di burn out capitalistico dell’attenzione sui social. Oggi l’attenzione è sempre più frammentata: mentre un utente sta guardando un video, molto probabilmente sta anche chattando o facendo altro e l’attenzione va a scemare». Al tempo stesso, nonostante i proclami, YouTube non ha alzato le monetizzazioni, mentre sono generalmente diminuite le views: «le visualizzazioni organiche nel giro di due anni sono scese del 70%, mentre l’efficacia delle sponsorizzazioni è scesa del 30%». Un freno ulteriore deriva poi dal fatto che YouTube è competitor diretto di Meta, Spotify e TikTok e non sempre è possibile collegare direttamente post, reels e compagnia al videoclip.
«Le risorse economiche e le energie creative si spingono verso altre strategie di marketing», osserva Sarubbi. «L’idea dietro sarà sempre anche visuale, però questa viene declinata anche nel realizzare Canvas, video per TikTok, teaser ecc.». Un discografico ha quindi davanti tre opzioni: «fare meno videoclip o direttamente non farne; fare meno videoclip, ma farli meglio, cioè lavorare su uno-due singoli; la terza strada invece è di continuare a farne tanti, frammentando il budget, facendo quindi dei video più “home-made”».
Secondo Sarubbi, il videoclip rimane uno strumento fondamentale soprattutto per gli esordi discografici: «il videoclip è garanzia di coerenza nella presentazione di un volto e sono pochi gli esempi vincenti della musica senza volto». Ma l’altro tassello fondamentale per la sopravvivenza e la rilevanza del videoclip è dato dal fenomeno (a quanto pare prettamente italiano) della radiovisione o visual radio. Negli ultimi due anni, infatti, molte radio sono sbarcate sul digitale terrestre (anche in simulcast, come Rtl 102.5) o trasmettono in streaming. Per questo oggi le radio assieme al singolo «chiedono sempre il videoclip o il “video tampone”, che dura comunque massimo 1 o 2 settimane perché poi va comunque sostituito con il videoclip ufficiale. Se si hanno ambizioni radiofoniche, il videoclip bello o brutto devi farlo».
Per quanto riguarda i produttori di videoclip, i più pessimisti sostengono che le major italiane vogliano “spegnere” i videoclip, concentrando gli sforzi solo su reel che magari durino il tempo di un ritornello. Altre voci, pur confermando il calo della domanda, riconducono questo a un semplice ciclo, dato che è già capitato che si alternassero momenti con scarsa richiesta di videoclip e altri con alta richiesta. Questo “ciclo” potrebbe essere dovuto alla calendarizzazione delle uscite discografiche (molti artisti pop in voga hanno pronti album per il 2023) e al fatto che veniamo da una intensa stagione di tour in stadi e palazzetti che ha tenuto fisicamente impegnati gli artisti. Da qui proviene anche quel po’ di ottimismo verso il futuro che abbiamo registrato: a breve, i proventi di questi tour in qualche modo sono infatti destinati ad essere investiti anche in videoclip, non appena le pop star avranno più tempo da dedicare alla produzione degli stessi.
Tutte le nostre fonti comunque convergono su un generale abbassamento dei budget destinati ai videoclip, con diversi artisti pop con major alle spalle che hanno visto i propri budget per videoclip scendere intorno ai 10k Euro, quando lo standard solo pochi mesi fa si attestava saldamente sopra i 20k. Questa è una tendenza estremamente preoccupante, poiché con investimenti tagliati in maniera così drastica è anche possibile che la morte del videoclip sia semplicemente una profezia autoavverante: per delle strutture organizzate – artista di major da un lato, casa di produzione strutturata dall’altro – diventa più complicato fare un buon videoclip con un budget così ridotto e l’effetto “carta da parati” è dietro l’angolo, al punto che potrebbe automaticamente dimostrarsi più opportuno per le label investire su un contenuto più breve, ma che consenta di mantenere una qualità tutto sommato alta.
Per capire se le etichette hanno davvero l’intenzione di abbandonare il videoclip, avremo ben presto un banco di prova con Sanremo, quando potremo misurare con mano quanti dei ventotto brani in gara saranno accompagnati da un promo. Se dovessimo però azzardare un’ipotesi, è probabile che ci si incontri a metà strada: il videoclip salverà la pellaccia un’altra volta, ma la sua produzione sarà necessariamente integrata in “pacchetti produttivi” che contengano teaser, reels e visual loop (si spera coerenti fra di essi…). Magari anche un album trailer o un video live promosso da Vevo e compagnia, nonché documentari di più lunga durata destinati invece alle piattaforme VOD.
In linea generale, come già avviene, si favoriranno le creatività declinabili su più formati (incluse le proiezioni live), in cui sarà ancora più accentuato il ruolo dei performer e si premerà l’acceleratore per quanto riguarda la stilizzazione estetica, a danno di uno sviluppo più articolato del dispositivo scenico o della complessità narrativa.
Music Videos Are Not Done. Yet.
L’ottimismo è il profumo della vita, no?
Facciamo un respiro profondo e proviamo ad essere ottimisti. Paradossalmente, se TikTok non uccide il videoclip, questo non potrebbe uscirne fuori “fortificato”? Perché non immaginare, in uno scenario del genere, una sorta di “principio di scarsità” che aumenti il valore almeno simbolico di un videoclip? Un cambio di status che lo renda merce posizionale privilegiata per un artista musicale, carico di un capitale culturale che i reel non possono comprare: perché dunque il videoclip non potrebbe finire per ingrandirsi (magari anche letteralmente allungando le durate) anziché perire, ricercando una dimensione più ambiziosa?
Si prenda ad esempio l’ultima uscita di Little Simz, il cui album No Thank You è stato spinto moltissimo a livello pubblicitario, ma che è arrivato accompagnato da un videoclip sui generis, tetro e ostico a primo impatto, di ben dieci minuti e che smonta completamente la corrispondenza canzone-video, sviluppandosi lungo cinque estratti da altrettanti brani.
Dal punto di vista dei numeri, si tratta di un’operazione fallimentare già in partenza, destinata a non ripetere le views dei videoclip più tradizionali fatti in precedenza. Little Simz non è nuova a questo genere di lavori, basti pensare al cortometraggio di ventidue minuti I Love You, I Hate You che non ha raggiunto neanche lontanamente il milione di visualizzazioni (nel momento in cui scrivo è fermo a 780k; il suo videoclip meno visto, Introvert, supera i tre milioni). Questo tipo di operazione è sorretto da due ragioni fondamentali. La prima è il chiaro interesse artistico verso il medium audiovisivo da parte del musicista, che lo spinge a esplorare questo territorio in forme originali e ambiziose senza troppi retropensieri utilitaristici legati al profitto economico. La seconda è un più sfumato e intangibile guadagno in termine di “reddito culturale”, quasi di bene posizionale: videoclip “alti” di questo genere rispondono alla necessità di posizionarsi come “artista alto”, al bisogno, insomma, di essere presi sul serio.
Sempre in Inghilterra, un’operazione simile l’ha fatta Stormzy, investendo moltissimo in un videoclip lungo quale Mel Made Me Do It, che non solo non va neanche lontanamente vicino ai numeri dei promo precedenti, ma che è già stato ampiamente superato dal meno impegnato e più recente Hide & Seek. Ciò che però evidentemente interessava Stormzy, al punto da investire la maggior parte del suo budget su questo tipo di videoclip-statement, era appunto “posizionarsi più in alto”. Lo fa con una parata di star che, seguendo questa logica, certifica il suo importante status artistico, il suo ruolo come voce della comunità nera. Il videoclip diventa così una forma per certificare la propria autorevolezza come artista importante e non frivolo.
Sono operazioni che probabilmente sul breve non comportano guadagni, ma che certamente pagano dividendi sul lungo termine, consentendo a questi artisti di fidelizzare più fortemente una parte di pubblico comunque cospicua e di acquisire uno status culturale più rilevante, allontanando il rischio di trasformarsi in meteore. In un’industria in cui il passato assume sempre più valore (nel 2021 le canzoni del passato rappresentavano il 70% dei guadagni dell’industria musicale), le discografiche farebbero bene a non sottovalutare l’effetto di una videografia più curata.
Momenti di gloria
I festival e i premi internazionali hanno scoperto l’Italia: tantissimi gli allori e i riconoscimenti raccolti dai registi italiani nel 2022.
Se l’orizzonte del videoclip italiano (e non solo) appare fosco, questo non vale per i giovani registi che vi lavorano. Il 2022 è stato un anno semplicemente clamoroso per il videoclip italiano di qualità: ai Berlin Music Video Awards hanno apprezzato il lavoro del Reef Studio per Salmo; agli UKMVA c’è stato il record assoluto di nomination per l’Italia grazie a Giada Bossi e Marco Santi; agli 1.4 hanno vinto Enea Colombi (con una pubblicità) e Lesyeu (con il video di First Time per i Palindrome), mentre in shortlist era entrata sempre Giada Bossi (con un corto); ai Ciclope Awards la fotografia di Giuseppe Favale per Broken Melody di Caterina Barbieri (regia di Iacopo Carapelli) veniva premiata con un bronzo. E chissà quanti altri allori e soddisfazioni stiamo dimenticando.
Giusto per rimanere nell’alveo dei vincitori di premi, ma spostandoci sui concorsi italiani, dobbiamo ricordare i giovanissimi Riccardo Sergio e Gabriele Skià che hanno vinto il premio PIVI con il triplo videoclip Nella mia testa//Logiche//Le mie gambe, le mie tasche, mentre al Pesaro Film Festival Bianca Peruzzi è stata premiata nella sezione Vedomusica con il videoclip di Amam Ancora per Nziria, confermando poi il suo talento con il più recente Fortefragile per Meg.
La verità è che siamo di fronte a una stimolante generazione di artisti, la cui lista non si esaurisce certo con quella dei nominati e vincitori succitati. Due parole, ad esempio, le meritano anche altre conferme di quest’anno, a partire dal duo formato da Giorgio Cassano e Bruno Raciti (andate a rivedervi Viale Santissima Trinità e rileggetevi la nostra intervista), mentre abbiamo accolto con gioia lo sbarco nel mainstream dei Broga’s (molto belli i lavori per i Pinguini Tattici Nucleari e Irama). E ne potremmo citare tantissimi altri, a riprova della grande vivacità che ha animato il videoclip nazionale negli ultimi mesi. Il mondo della musica farebbe bene a investire su questi creativi, perché in Italia c’è sicuramente il potenziale per fare grandi video musicali.
Non sarebbe male, poi, se finalmente si mettessero a disposizione degli strumenti tangibili di supporto a questi talenti, con incentivi alla produzione audiovisiva lato videoclip. Uno su tutti l’allargamento del credito di imposta: seppure dal 2021 questo includa direttamente anche il videoclip, non ci risulta siano ancora mai stati erogati contributi al settore. Dopo il famoso annuncio dell’allora ministro della Cultura Franceschini, che sanciva il videoclip come “forma d’arte”, non c’è stato in pratica alcun cambiamento concreto. Servirebbe invece supportare questi creativi finanziando fondi e bandi in cui sia indicato precisamente l’ambito della produzione di videoclip e di formati brevi dedicati alla musica, come già avviene ad esempio in Canada con la fondazione pubblico/privata Factor, che ha concesso oltre 570 mila euro per la produzione di 44 videoclip solo nel 2021. In Italia abbiamo visto alcuni video finanziati con l’iniziativa Per chi crea della SIAE, ma l’ultimo bando disponibile online è del 2018. Chi dovrebbe guardare con favore al videoclip, infine, sono sicuramente le Film Commission regionali, il cui scopo principale è promuovere il territorio: attrarre registi capaci e artisti musicali di rilievo dovrebbe essere il loro ruolo visto che, pure se in calo, i videoclip rimangono molto più visti di tante uscite cinematografiche e paesaggi e location giocano spesso un ruolo fondamentale in un promo.
È molto improbabile, per non dire impossibile, che le cose cambino proprio ora. Cionondimeno sarebbe auspicabile che il settore si unisca, superando eventuali antipatie personali, andando a chiedere con un’unica voce incentivi e agevolazioni pubbliche.
The Shape of Music Videos Director to Come
Le trasformazioni digitali e dell’industria musicale faranno evolvere anche il ruolo del regista di clip
Le etichette discografiche sono rivolte sempre di più verso l’acquisizione e la valorizzazione dei cataloghi, trascurando gli investimenti in ricerca e sviluppo.
La stampa e la critica hanno ceduto in buona parte il passo agli algoritmi, con i loro contenuti suggeriti.
La piattaformizzazione di internet ha balcanizzato il pubblico, dividendo ciascuno nella propria bolla autoreferenziale e cancellando o quasi quello che una volta era il pubblico generalista.
Emerge sempre più fortemente il trend della collaborazioni: feat tra i cantanti, comparsate degli influencer, accordi con gli sponsor.
La produzione e la distribuzione musicale sono in continuo cambiamento. Gli indipendenti hanno sempre meno bisogno del supporto di un’etichetta per farsi spazio nel mondo della musica. Ma in un mare di nuove uscite – incluse quelle prodotte da bot/AI -, la vera sfida è trovare punti di riferimento a cui ancorarsi almeno un po’.
Premesso che “il regista di videoclip” è una categoria sfuggente, dato che quasi sempre si tratta di una fase della carriera o una parentesi produttiva in mezzo ad altre attività, davanti a questi mutamenti e a queste sfide anche il ruolo del regista è destinato a cambiare.
Musica e video si vanno legando sempre di più, formando un discorso quasi indissolubile ben al di là dei singoli video musicali. Il futuro è già qui, osservabile distintamente nel lavoro di alcune giovanissime crew (una volta avremmo detto collettivi) come il Thru Collected o il Team Crociati, che hanno prodotto alcuni dei lavori più interessanti degli ultimi anni. Questi sono i casi più paradigmatici, portati avanti da ragazzi che più che nativi digitali, potremmo definire nativi convergenti. Ma in forma diversa il discorso si può allargare al recente lavoro di una band indie come i Tamango, oppure alla collaborazione strettissima tra Chiello e il regista Tommaso Ottomano, che ha anche co-prodotto i brani, o ancora al percorso fatto da Giulio Rosati con il rapper emergente Axell.
Si tratta di casi emblematici in cui musicisti, registi e direttori creativi lavorano a strettissimo contatto, in squadra, quasi come una sola entità. La loro produzione passa dalla musica in primis, certo, ma può fluttuare indistintamente verso la moda e l’organizzazione di eventi passando sempre da un lavoro sull’estetica che trova (al momento) la sua espressione più forte nel videoclip.
Il confine tra musica e immagine, tra canzone e content, si fa più labile. Così il regista di videoclip sarà sempre più figura ibrida e integrata, assumendo alle volte il ruolo di manager, direttore artistico, magari pure musicista o tutte le cose insieme. Sempre più spesso seguirà in tour gli artisti per documentare o per curare la parte visuale dello show. Il regista sarà un membro aggiunto della band o i membri della band saranno già anche registi. Il regista affermato invece sarà uno scopritore di talenti, lancerà i giovani, li guiderà al successo sostituendosi o sovrapponendosi al lavoro di A&R che una volta era delle etichette.
Collaborazioni strette e durature hanno sempre caratterizzato la storia del videoclip, certo, ma la differenza qui sta a monte, nel fatto che musica e immagine non convergono più per fini industriali, ma nascono sempre più spesso insieme. La musica sulle piattaforme è visiva. E poi c’è un grande vuoto da colmare: le grandi etichette hanno abdicato ormai da tempo al loro ruolo nel curare e ricercare il talento, da tempo non segnano i trend ma li inseguono disperatamente. È un vuoto che un musicista non può colmare da solo. Lo faranno gli streamer, gli influencer, i podcaster. In un modo diverso, ma ancora più rilevante, possono farlo i visionari, i registi.