Chiaro Documentary è un autentico oggetto documentario non identificato (per parafrasare una definizione dei Wu Ming): un video album o un videoclip espanso – anche qui è difficile, forse inutile, trovare una definizione – costruito attorno a una varietà di materiali d’archivio e originali, ma comunque sempre incentrato sulle figure del rapper parmense Deepho e del suo producer Michael Mills, raccontati nella loro quotidianità, intesa però soprattutto nella sua accezione onirica. È così che, tra una chiave misteriosa e degli abiti futuristici, due ragazzi qualunque diventano degli (anti)eroi, personaggi alla Tron all’avanguardia del nulla, sventolando una bandiera nel vuoto.
Girato lungo il corso degli ultimi due anni – in pratica durante i momenti di apertura dei recenti lockdown -, Chiaro è anche però un più ampio ritratto della crew Team Crociati, di cui i due artisti fanno parte, mentre per i due registi Giorgio Cassano e Bruno Raciti, entrambi classe ’98, rappresenta la summa di una tappa estetica che si va chiudendo. Due anni in cui Cassano e Raciti si sono conosciuti, hanno cominciato a collaborare e, uscendo dalla nicchia del rap sperimentale, hanno rappresentato una delle più interessanti novità dell’eccitante giovane sottobosco del videoclip italiano.
Team Crociati è anche il titolo del primo videoclip di Deriansky, forse il producer e rapper più carismatico del collettivo ducale, che rappresenta la prima tappa di questo viaggio: il video si divideva tra street lo-fi e un montaggio d’assalto eterogeneo e destabilizzante (quella sequenza era firmata da Nic Paranoia, art director del collettivo). Fin dall’inizio, quindi, l’estetica della crew parmense spiccava per una ricercata originalità, il tentativo di non battere i luoghi comuni del video e del sound rap italiano, fatto di droni, palazzoni, swag, pose criminali e la gang d’ordinanza alle spalle del rapper. «Cerchiamo di lavorare sempre fuori dagli schemi, di dare un’impronta che sia sempre il più mai vista possibile», mi spiega Cassano nel corso di una telefonata assiema a lui e Raciti.
Il salto di qualità avviene sul set di Qholla, il momento dell’incontro fra i due registi. Prima di incontrare Raciti, al Team Crociati «mancava la gestione della tecnica, la capacità anche solo di pensare di poter raccontare una storia», come ammette lo stesso Cassano. «Quando stavamo lavorando al video di Qholla, ho visto arrivare Bruno con una valigia piena di pezzi di ferro, camere, rig, schermi, un po’ di tutto…sembrava il furgone della frutta!». «Sono andato lì completamente a caso», ricorda Raciti, «senza sapere cosa stavano facendo, portando la mia camera, i miei attrezzi. Così ho toccato con mano cosa facevano, chi erano queste persone del Team Crociati e ne sono rimasto attratto per le somiglianze che avevamo a livello attitudinale, a livello di gusto, a livello di insofferenza che provavamo nei confronti di determinati aspetti della vita. È nato tutto spontanemante». «Da lì in poi abbiamo cominciato a lavorare insieme», racconta Cassano, «la cosa si è cementata, ora lavoriamo tipo team occupandoci quasi di tutto tutti e due insieme. Magari Bruno si focalizza di più sugli aspetti tecnici, mentre io mi occupo più di regia e produzione».
Venendo a Chiaro Documentary, il loro ultimo lavoro in coppia, lo definiscono come «la rappresentazione più forte di ciò che è il Team Crociati». La scena più rappresentativa non a caso è rappresantata dal protagonista che sventola una bandiera su un cumulo di macerie. Si tratta di ciò che resta dopo la demolizione della casa che aveva fatto da set a Dita cotte, precedente videoclip diretto dal duo sempre per Deepho. «Quella demolizione doveva apparire nel video di Dita cotte, una scena che poi è saltata per motivi di tempo. Su quelle stesse macerie, abbiamo allora girato questa sorta di conquista con la bandiera, un po’ come se si stessero conquistando le macerie di quello che abbiamo fatto in passato, di quello che è il nostro tempo, di quello che amiamo fare; è stato come conquistare definitivamente ciò che avevamo fatto, come se cristalizzassimo quei momenti».
Ma cos’è il Team Crociati? «Cosa siamo? Non riesco a risponderti», mi dice Cassano, «perché ci stiamo ancora “creando”: abbiamo affrontato le diverse necessità della produzione e promozione della musica e così si sono rivelate le skill di ciascuno di noi; adesso un po’ alla volta integreremo le figure che mancano. Se ti devo dare una definizione, siamo una “quasi etichetta” che si occupa della gestione e della promozione dell’immagine dei progetti musicali. In futuro, chissà, vorremo anche realizzare merch, non proprio come un brand, ma facendo dei drop, e anche operare nel mondo dei video in maniera più o meno commerciale. Ma è ancora tutto in fase di definizione».
Questa precarietà identitaria, questo “starsi facendo”, si ritrova anche nel “documentario” realizzato per Deepho, che secondo i registi è frutto di spontaneità, un lavoro, appunto, «che si è fatto da solo». Faccio notare ai due che ne è uscito un “documentary” che però ha ben poco del documentario, in senso stretto. Mi risponde Raciti: «per me è un documentario in quanto realizzarlo è stato come quando per strada fermi una persona che ti colpisce per farle una foto: con questo video ho fatto la stessa cosa con queste persone (il Team Crociati, ndr), che mi hanno dato un’energia immediata che avevo l’esigenza di rappresentare in qualche modo. Quello che tu vedi sullo schermo è il frutto di un’attitudine documentaristica. Dentro ci sono tantissime robe, tantissimo archivio, tantissime scene che non dovevano essere girate».
Le riprese vanno infatti da momenti di vera e propria documentazione (concerti, registrazioni ecc) fatte da Cassano, che si inframezzano poi a riprese fatte dagli stessi musicisti con i loro cellulari e handycam varie oppure ancora con dei filmati di famiglia. Infine, ci sono anche altre riprese frutto invece di scene pianificate, ma senza avere un copione ben preciso, realizzate spesso improvvisando o scrivendole di getto un attimo prima di girarle e fra queste spiccano le riprese realizzate con i costumi futuristici firmati da Andrea Grossi e il drone di Rocco Di Dio.
La collaborazione, determinante, con Grossi nasce anch’essa spontaneamente sui social, dove lo stylist seguiva e interagiva con Deepho prima che arrivassero Lil Nas X e compagnia. «Pensavamo che sarebbe stato figo chiedergli dei vestiti per alcune scene del Documentary», riferisce Cassano, «la sua estetica ci gasava, con alcune trame che ricordano addirittura alcune grafiche che avevamo fatto per il disco di Deepho. Eravamo già nell’ottica che volevamo collaborarci e poi è venuto fuori che lui stava già seguendo Deepho sui social, gli aveva scritto proprio mentre stavamo pensando di coinvolgerlo nel progetto. Insomma, abbiamo scoperto che ci piacciamo a vicenda. Poi Andrea è di Reggio Emilia, c’era la possibilità di incontrarsi a Parma (anche se poi ci siamo poi conosciuti a Milano), ci siamo trovati bene, c’è stato subito feeling, intesa».
Invece, per quanto riguarda la scrittura, se così si può definire, del lavoro, questa nasce dagli scambi telefonici tra i due registi: «siamo partiti dai media con cui avremmo lavorato», mi spiegano, «da quali sarebbero stati gli elementi che avrebbero composto la complessità di questo videoalbum», con il problema non indifferente di mettere insieme un materiale composito ed eterogeneo. Problema a cui si aggiungevano le condizioni materiali in cui il video è stato realizzato, girandolo durante i piccoli ritagli di tempo, tra un lavoro e l’altro, in cui i diversi ragazzi potevano ritrovarsi. «È stato difficile perché erano momenti in cui eravamo più predisposti allo svago che non al lavoro», ammette candidamente Cassano.
«Eravamo d’accordo di trovarci a lavorare sapendo che alcune situazioni, rispetto a quello che giravamo, sarebbero state decise più avanti. Sapevamo alcune cose che volevamo fare, mentre nel tempo in più pensavamo alle altre scene da girare. È stato un processo sempre in divenire, ci sono state mille situazioni che non si sono poi realizzate, altre cose che invece abbiamo girato all’ultimo», mi dice, senza negare i momenti di crisi e di scontro, da cui però scaturiva l’ispirazione necessaria. Si è trattato di «situazioni in cui le cose si allineavano per dare vita a una scena in relazione agli elementi che avevamo davanti a disposizione», sintetizza Raciti.
Il montaggio mixed media che caratterizza il video finisce anch’esso per essere una scelta spontanea, naturale, non studiata a tavolino. Solo in parte è il riflesso dello stile musicale del Team Crociati, Deriansky in testa, fatto di beat destrutturati, caratterizzati da bruschi cambi di sound e connessioni surreali. «Il mixed media lo puoi intendere in due accezioni», afferma Raciti, «quella per cui ti metti lì e apposta giri la stessa scena con delle camere diverse, e quella che noi seguiamo e per la quale ogni volta che ci troviamo davanti a un’immagine che dobbiamo realizzare ci poniamo il problema di quale sia la grana giusta per realizzare quell’immagine, per restituire l’essenza di quel momento, la questione cioè di ragionare sulla singola immagine in maniera a sé stante». Dopodiché concorda nel dire che «non c’è un modo migliore di restituire il sound di questa musica che con il mixed media. Ci sono artisti che hanno suoni più o meno organici, ma credo che ogni artista sia diverso, ogni suono sia diverso e ogni suono ha un corrispettivo modo coerente di essere rappresentato».
Per questo motivo in futuro i due vogliono lavorare in modo differente: «fino ad ora ci siamo confrontati con delle realtà che ci richiedevano immediatezza», afferma Raciti, «ma ora vogliamo strutturare meglio le nostre scelte, farle a priori». Per questo, come dicevamo all’inizio, Chiaro Documentary si configura anche come l’epilogo di una tappa estetica, un primissimo punto di arrivo e di ripartenza nel proprio percorso di formazione creativa. «Sicuramente sì, anche perché ci siamo sbattuti così tanto che non abbiamo più voglia di fare le cose in questo modo», afferma Raciti prima che entrambi scoppino in una fragorosa risata. «La spontaneità corrisponde ad altrettanta ansia», ammette Cassano, «ora stiamo cercando di programmare, io sto cercando di scrivere meglio, si insomma stiamo cercando di “uppare”».