Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
In occasione del Sanremo del 2021, avevamo scritto un articolo dedicato alla rilettura di quel Festival in chiave Skiantos. E si era proprio iniziato con un aneddoto che aveva protagonista, oltre che il caro Freak Antoni, il buon Gianni Morandi, che nel 2022 si ritrova non solo in competizione ma pure sul podio della tanto amata kermesse musicale.
Nel 2020, l’episodio che “fece scattare” la voglia di scrivere sopra il Festival dei fiori, senza davvero seguirlo ma solo vedendone i sublimi spezzoni, fu l’ormai mitico scontro tra Bugo e Morgan. Bugo che poi parteciperà da gran protagonista pure all’edizione dell’anno seguente, trovando quel successo che nel passato non aveva mai davvero avuto malgrado una vena creativa innata e senza limiti.
Ma quest’anno, senza il caro cantautore lombardo, cosa poteva attrarre la nostra attenzione? È vero che “no Bugo no party”? Beh, quest’anno c’è stato Gianluca Grignani.
Irama, non pago di aver proposto il miglior videoclip tra quelli girati per la kermesse sanremese (firmato da Enea Colombi), decide di portarsi a Sanremo il caro Gianluca Grignani. Sì, lo stesso Grignani che debuttò in quel del Festival nel lontano 1995 con Destinazione paradiso. Quella canzone lo fece conoscere, ma fu grazie alla partecipazione qualche mese prima a Sanremo giovani 1994, che gli fu possibile accedere alla competizione tra le nuove proposte nel Sanremo del ‘95. E il brano proposto nel 1994 fu La mia storia tra le dita, proprio il brano voluto per il ritorno sul palco dell’Ariston. Successivamente al 1995, Grignani partecipò a ben cinque altre edizioni del Festival, senza mai un grande successo, con l’ultima partecipazione nel 2015.
Un Grignani che in quel periodo non se la passava di certo bene, abbonato com’era a entrare nelle cronache per gesti non proprio canori, come la sua esibizione completamente ubriaco nel concerto di fine anno del 2016 trasmesso in diretta tv. E poi ben altri problemi con la droga che lui stesso ha dichiarato più volte. Ma Irama ha voluto crederci, ha voluto riportarlo sul palco di Sanremo, e le cose più che essere andate male, sono state vagamente impreviste. Irama e Grignani non hanno avuto, potremmo dire, la stessa “chi-mi-ca chi-mi-ca” di Ditonellapiaga e Rettore o di Morandi con Jovanotti.
In Pagliaccio di ghiaccio parte 3, Metal Carter parla di un Grignani con un teschio sul collo (che fa seguito a quello di Max Pezzali nel primo Pagliaccio di ghiaccio). Quasi un suo alter ego, il Grignani piacione d’inizio carriera e quello un po’ folle e incontrollato del periodo successivo. Un Grignani che a metà anni ’90 si era trovato a essere l’idolo delle ragazzine, il giovane cantautore di bell’aspetto e un po’ malinconico, che aveva sfondato i confini nazionali ed era diventato un mito persino in America Latina (fate ascoltare a un messicano Mi historia entre tus dedos e capirete…). Lo stesso Grignani che poi si riscoprì un guerriero sperimentale, ma senza più successo, con La fabbrica di plastica. Un guerriero contro lo stesso sistema che lo aveva generato, che lo aveva reso quel cantante di successo, che lo aveva “confezionato” e gettato nel mercato musicale, e dal quale cercava finalmente di liberarsi: “Io vengo dalla fabbrica di plastica / Dove mi hanno ben confezionato / Ma non sono esattamente uscito / Un prodotto ben plastificato.” Ad accompagnare il tutto un videoclip che ricorda le atmosfere dell’incipit di Brave New World, e pure un po’ lo stesso Festival floreale. Festival nel quale Grignani, venticinque anni più vecchio, si ritrova a esibirsi con un suo brano dell’epoca “plastificata”.
Il look 2022 ha qualcosa di quella fabbrica di plastica: un cappello stravagante e il trucco al viso. Poi qualche kg in più, un po’ di quella fatica del vivere che si ha dopo un passato così, e un grande sentimento di esistere, di esserci malgrado tutto. La voce è la sua, inconfondibile, come è suo quell’istrionismo burbero da rockstar invecchiata. Eppure comanda lui. Eccome se comanda lui. Grignani decide quando entrare, Grignani decide quando bisogna sedersi e Grignani decide pure se e quando cantare. Interagisce con il pubblico, fino a penetrarlo, a perdersi in esso. E Irama lo insegue, riempie i vuoti con dei vocalizzi, è il contorno a qualcosa di ben più prelibato: la musica italiana del passato. I sogni andati, il mondo intatto e romanticamente immortale della musica che fu, di quella canzone all’italiana fatta da musicisti ai bordi della retta via. Musicisti alternativi nel loro modo di essere, e non solo nell’aspetto provocatorio. La musica che fu alternativa perché contro i canoni, perché si sapeva scontrare con le fabbriche di plastica e rischiare la sconfitta, la rovina. Per poi farsi ripescare, farsi riassorbire dalla stanca routine commerciale, dalla decadenza senza soluzione.
Grignani compirà 50 anni a breve (il 7 aprile 2022), e sembra lontano un secolo sia il suo primo periodo da idolo delle teenager sia quello in cui “decostruiva” fabbriche di plastica e passeggiava su campi di popcorn. È lontano pure il 2002, vent’anni fa esatti, quando usciva Uguali e diversi, il Grignani più esplosivo di sempre, apparentemente sereno tra grandi metafore aiuolesche. Irriconoscibile, forse, ma sempre fedele a se stesso nell’anarchica deriva di un cantautore inquieto,di un uomo che ha scelto di vivere così, con tutti i suoi sbagli e i suoi “ma sì” . Un giovane invecchiato, uguale ma diverso da quello che fu.