Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
Nasci in Repubblica Ceca negli anni ’80, sei bianco come la luna e sei alto 1m e 85cm. Bene, inoltre il tuo peso si aggira attorno ai 90kg, sei più o meno in forma potremmo dire. Allora, quando devi decidere cosa fare della tua vita, la carriera di sportivo professionista è di certo un’opzione percorribile. Sono tanti gli sport adatti a un profilo simile. L’Europa è la culla di tante discipline tra cui scegliere, in cui poter ambire alla gloria. Per il basket forse sei un po’ piccolino (anche se abbiamo visto passare in NBA gente come lui o come lui), per il calcio potresti andare bene come centroavanti di sfondamento e poi ci sono le discipline da combattimento: boxe, arti marziali, lotta di vario genere. Però Pavel Bojar cercava qualcosa di diverso, lui si annoiava a fare del semplice judo, voleva qualcosa di più, qualcosa in cui realizzarsi per davvero. Pavel Bojar aveva un sogno e per lui il percorso era chiaro. La scelta più ovvia per Pavel Bojar era diventare Takanoyama Shuntaro, professione lottatore di sumo.
Davide e Golia, il topolino contro l’elefante, i sogni di gloria contro la spudorata ingiustizia del mondo. Una frase che citano tutti, e ogni volta messa in bocca a qualcuno di diverso, dice che “se i sogni e la realtà non corrispondono, allora cambia la realtà”. Chiunque l’abbia detta per primo e in qualsiasi forma, di certo è stata alla base della storia di Pavel Bojar. Ma anche il fondamento della storia dell’immagine in movimento: dal cinema di Méliès fino agli ultimi film di Tarantino, passando anche per tanti videoclip. Tra questi pure quello di Jovanotti.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, un giovane regista afroamericano e un cestista che si stava trasformando nella più grande leggenda sportiva di sempre, diedero vita a una serie di spot per la Nike, destinati a diventare paradigma di pubblicità, immagine, legame tra sport e iconografia. Da un lato c’era Spike Lee (che, non dimentichiamolo mai, ha diretto pure un videoclip per Eros Ramazzotti), dall’altro lato sua maestà MJ.
L’estetica da playground newyorkese, quel bianco e nero dell’incipit e i pantaloncini dei Chicago Bulls, rendono evidente come questi spot siano il riferimento principale del videoclip di Jovanotti. Poi però il video si evolve in una maniera imprevedibile. È una partita al campetto tra gli esponenti della musica Rap e i protagonisti – in negativo – del 1992. Jovanotti e amici contro i rappresentanti dei poteri economici e militari. La musica, l’arte e la libertà (ma anche la giovinezza direi, l’essere appunto “giovanotti”) contro il sistema politico, la magistratura, l’esercito e il clero. In ballo il destino del mondo, come esplicitato dal pallone da basket utilizzato, ovvero un bel mappamondo palleggiante.
Poco d’annoiarsi insomma. Sopratutto viste le dinamiche di questa partitella, che sono un po’ quelle che saranno anni dopo per Space Jam. Da una parte i salvatori del mondo, dall’altra gli esponenti del male, una partita che inizia decisamente a favore di quest’ultimi ma che poi cambia clamorosamente. Questa volta non sarà “l’effetto placebo” di Bugs Bunny ad aiutare la rivoluzione, ma solo lo zampino del coach della squadra del Rap, ovvero Gesù “in persona”. E il punto allo scadere poi, il punto del sorpasso che chiude la partita a favore dei grandi sfavoriti: qualcuno a Hollywood deve per forza aver preso spunto da questo videoclip… (ovviamente la referenza è il primo Space Jam con MJ, del secondo facciamo come se non ci fosse mai stato: “se i sogni e la realtà non corrispondono, ecc. ecc.”).
Questi rappresentanti maldestri e truffaldini della borghesia, dell’esercito e della Chiesa, di certo sarebbero piaciuti molto a Luis Buñuel, che in qualche modo viene pure lui ben ricordato. Quel finale scanzonatamente blasfemo, non può che non farci ricordare la mitica scena di Viridiana, con quello “scatto” da sotto la gonna di una mendicante a immortalare la leggendaria ultima cena cristologica. Poco d’annoiarsi, insomma. Che poi… per tutti quelli che sono costretti a casa perché positivi al Covid come il sottoscritto, l’importante è proprio questo: non annoiarsi. No, io no che non m’annoio, non m’annoio. E, ovviamente, penso positivo.