Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
È il 1984. Il 1984 è l’anno chiave. La chiave per il videoclip in Italia. Fotoromanzi è proprio la conseguenza diretta di Fotoromanza, di quel tentativo audace e maldestro dell’industria musicale italiana. Il tentativo d’unire la cultura cinematografica che fino ad allora, e successivamente solo a momenti alterni, aveva fatto la fortuna del nostro paese, con la nazional-popolarità del canto all’italiana. Quel canto che, come già visto, aveva attratto pure il mercato internazionale, anche se non allo stesso livello del nostro cinema.
È il 1984. Michelangelo Antonioni, forse non più in formissima ma pur sempre venerabile maestro, prende la strada del video musicale: un prodotto mediocremente geniale, il capolavoro di un visionario senile. I soldi per il girato ce li mette la Ricordi, e la sua innovativa trovata non passa di certo inosservata. É il 1984. La Warner mette sotto contratto Amanda Lear per un singolo, un singolo sul quale decide di puntare forte. D’obbligo prendere ispirazione dalla concorrenza. D’obbligo contrattare un altro regista (Gran) bollito per girarne un promo.
Mauro Bolognini. Tra i più importanti esponenti della “commedia italiana” degli anni Cinquanta e regista di culto cinefilo nel suo “periodo autoriale”, tanto lontano da Antonioni come dalla moda della “commedia all’italiana” degli anni Sessanta. Bolognini è un autore senza esserlo, un po’ perché “autore” non vuol dire nulla, un po’ perché messo sempre in secondo piano rispetto ad altri. Bolognini è un artigiano che strizza un occhio al commerciale e l’altro alla letteratura filmata. Bolognini è il regista di Arrangiatevi! , il film definitivo sulla chiusura delle case chiuse e sull’apertura della commedia all’italiana stessa. Aiuto regista nei film “maledetti” di Luigi Zampa del secondo dopoguerra, regista per gli scritti di Pasolini alla fine degli anni Cinquanta e solido uomo di mestiere nei suoi 40 anni di cinema. Più di venti lungometraggi, diversi episodi per film collettivi e alla fine della carriera tanti film per la televisione. E poi il 1984. L’anno del suo unico e sorprendente lavoro nel mondo della musica filmata.
Amanda Tapp. Senza luogo e data di nascita. Senza sesso. Amanda Lear, senza bisogno di essere raccontata. Dal surrealismo di Dalí al punk dei CCCP, passando per la musica dance degli anni Settanta e Ottanta. Sogno erotico di un erotismo proibito, ambigua protagonista della sua stessa ambiguità. Come nella canzone dei Baustelle (singolo con tanto di video di produzione Warner anch’esso), la sua è una sfuggente presenza malgrado la sua onnipresenza. Sempre al centro dell’attenzione, sempre esposta al massimo e allo stesso tempo lontana, estranea, ailleurs.
Il suo culto va al di là della musica e si spinge nella mitologia, come un mito è quello dell’assassino romantico. L’amore perverso e violento, l’amore diverso e intenso. Un amore che non nasconde la tendenza alla retorica commerciale e allo stesso tempo strizza l’occhio alla dance e persino un po’ al punk. Amanda Lear è la fusione delle fusioni, la fusione delle effusioni, effusioni e fusioni: You’re the best, forget the rest, tomorrow.
Il video firmato da Bolognini è un po’ il Michael Jackson di Beat it(1982) o quello scorsesiano di Bad(che però è successivo, 1987), un po’ Vestito per uccidere di Brian De Palma (1981). Il linguaggio è sicuramente il linguaggio degli anni Ottanta. È un’estetica colorata e grezza, vagamente esotica nei tratti della cantante e nel suo camuffarsi da se stessa.
Decisamente anni Ottanta nel senso del cinema anni Ottanta di Tinto Brass: mignotte e fumo, luci di notte e sensualità provinciale. Cornice ideale per una canzone composta dalla stessa Amanda Lear in collaborazione con Cristiano Malgioglio e arrangiata dall’ex Formula 3 Alberto Radius. Scritta sia in italiano che in inglese, venne scelto di girarne un promo solo per la versione “internazionale”, mentre per quella italiana solo riprese in esterno, Amanda vestita da marinaretta, tre o quattro piani diversi, lei che canta e balla.
Un po’ Michael Jackson, un po’ Tinto Brass e molto Amanda Lear. Si vede persino una mezza tetta. E ogni fotogramma è marchiato dal suo sguardo, dal suo essere presenza e fumo. Amanda ammicca, Amanda azzecca. Amanda suggerisce, Amanda arrangia e Amanda “s’arrangia”. Amanda muove la musica, smuove tonalità e accordi. Amanda gioca e controlla le pedine del gioco.