Lo scorso mese si è svolto il Seeyousound Film Festival e sulle nostre pagine abbiamo dato spazio alla lodevole rassegna torinese per l’alto livello qualitativo della proposta artistica, ma soprattuto per l’attenzione assoluto rilievo che il Festival riserva al videoclip musicale.
Smaltite le fatiche organizzative, abbiamo colto l’occasione per intervistare il vice-direttore Alessandro Battaglini per fare un bilancio di questa edizione digitale e parlare del suo lavoro come curatore della sezione Soundies – dedicata ai video musicali – e dei suoi progetti futuri.
Ciao Alessandro, come va? È da poco terminato il Seeyousound, com’è andata?
Ciao Alessio, bene grazie. Seeyousound è terminato da pochissimo e siamo molto contenti di come è andata. Questa edizione, al di là delle sue particolarità dovute alla pandemia, è arrivata al termine di un anno incredibilmente complicato e difficoltoso in cui, in questi mesi, ci siamo trovati molto spesso a dover inseguire erraticamente le evoluzioni dell’emergenza sanitaria che, per noi in particolare, era stata prima di tutto un trauma improvviso.
È stata, quindi, prima ancora di valutare i risultati, una liberazione, che serviva a noi e al nostro staff, per scacciare antichi demoni e chiudere i conti con il 2020, a ridare forza ed entusiasmo e a mostrare a tutti, orgogliosamente, di essere ancora vivi e vegeti e con tante idee e voglia di fare. Abbiamo dimostrato, prima di tutto a noi stessi, che se le idee sono convinte e forti, anche in questa condizione, si può trovare il modo di produrre contenuti di qualità in nuove forme e nuovi linguaggi.
Tutto ciò premesso, il nostro pubblico ha risposto: presente. In una maniera oltretutto molto affezionata, sono stati moltissimi gli abbonamenti “Sostenitore” che prevedevano oltre all’abbonamento di avere anche una maglietta e una pin, come dei veri e propri fan che si prendevano cura di una cosa a cui tenevano e ciò ci ha fatto molto piacere.
Non era affatto scontato riuscire a fare il Festival. Sembra passata una vita, ma solo un anno fa eravate costretti a sospendere il Festival a causa della pandemia. Che anno è stato per voi e che effetto ti ha fatto vedere nascere questa settima edizione, completamente digitale?
Assolutamente. Come ho risposto nella domanda precedente è stato un anno molto faticoso e complicato. Lo stop improvviso dell’anno scorso aveva messo a dura prova la sopravvivenza economica del Festival e della nostra associazione.
Abbiamo dovuto fare un po’ di piccoli miracoli per rimanere in vita, ma ci siamo riusciti, anche grazie all’aiuto e alla comprensione di molti, fornitori, attori del settore e uno su tutti, e ci tengo davvero a ringraziarli, il Museo del Cinema che fin da subito ha capito la nostra situazione e non ci ha mai fatto mancare il suo appoggio e la sua collaborazione.
L’edizione online è nata per necessità e dopo vari cambi di piano dovuti all’evoluzione della situazione. A novembre ci siamo trovati costretti a ripensare un Festival, che prima sembrava potesse ancora contare su una presenza in sala che, invece, la seconda ondata ha reso impossibile. Così abbiamo preso la decisione, saggia, di puntare con decisione sull’online e di pensare ad una proposta che rispettasse questo linguaggio e ambiente, che è nuovo e ha regole e linguaggi suoi.
È diventato un vero e proprio altro tipo di Festival, sotto certi aspetti ammetto anche molto affascinante e stimolante. E’ stato bello cercare di reinterpretare l’attitudine, il mood e le caratteristiche di Seeyousound per un’altra fruizione, ma fin dal primo momento eravamo convinti che se si fosse puntato sull’online si doveva creare un evento per l’online e non solamente adattato a questa forma. Non ricreare insomma un surrogato della presenza, ma una vera e propria proposta confezionata per questo ambiente. Da lì si è implementato il progetto Playsys.Tv che era già in fase di progettazione e ideato il Seeyousound Live Show con le dirette dal Cineteatro Baretti e i concerti in streaming.
Il Festival è andato infatti in streaming su questa piattaforma che avete creato ad hoc, Playsys.tv, che è nata per restare anche dopo il Festival. Come è nata questa idea e come funziona?
L’idea è nata subito dopo lo stop traumatico di febbraio dell’anno scorso. Molto rapidamente il paese è entrato in lockdown e un po’ per comunicare e far vedere attraverso una presenza online che eravamo ancora vivi, un po’ per fare la nostra parte di supporto di una popolazione e un pubblico confinata in casa, abbiamo cominciato a proporre ogni giorno sui nostri canali social dei contenuti gratuiti a tematica musicale presenti in rete.
Fu un’idea tirata su in pochi minuti chiamandola “Seeyousound Streaming” e veicolandola come una rubrica dei nostri canali Facebook e Instragram. La risposta del pubblico è stata importante, con numeri davvero notevoli, che ci hanno fatto quindi comprendere che c’era una domanda per questi contenuti e un pubblico che voleva approfondirli.
Da lì è nata l’idea di Playsys.Tv, di un luogo virtuale che non fosse solo un contenitore, ma che diventasse una casa per i musicofili e amanti del genere, una comunità digitale dove continuare a dare una casa oltre al Festival a film di questo genere che molto spesso non vengono considerati dalla distribuzione nostrana. Un vero e proprio progetto editoriale che non prevede solo film, ma anche playlist, articoli di approfondimento, news.
Oltre ad essere vice-direttore del Festival, da tre anni a questa parte curi con l’aiuto di Alessandro Maccarrone e Marika Palumbo la sezione Soundies, dedicata al mondo dei videoclip. Con quali criteri avete selezionato i 20 videoclip in concorso?
Io ho dei criteri narrativi ed estetici ben precisi. A volte anche talebani, ma chiari, e li ho fin da subito trasmessi ad uno staff che ho scelto e che li condivide a pieno. Alessandro e Marika sono per me fondamentali e sono molto di più di due semplici assistenti. Gli input e gli stimoli che mi danno quotidianamente sono importantissimi per lo sviluppo della sezione.
I nostri criteri sono prima di tutto tecnici. Il mondo del videoclip per primo, come formato, ha dovuto confrontarsi con la rivoluzione digitale, trovando nell’online un nuovo spazio di fruizione, che ha sicuramente messo fine all’era dei budget milionari, ma che ha creato un nuovo percorso in cui il formato si è evoluto insieme alle attrezzature, dove i budget e le tecnologie sono diventate più accessibili e dove le possibilità creative si sono quindi moltiplicate, perché gli interpreti si sono moltiplicati.
Ciò ha sicuramente alzato il livello tecnico globale che è generalmente molto alto. Un videoclip non può prescindere dalla tecnica di ripresa, dalla fotografia e dal montaggio. Quindi su quello siamo davvero molto selettivi.
Al livello tecnico va poi associata una narrazione intelligente e interessante. Uno storytelling non banale, che mostri un’idea e un’attenzione per il ruolo che dovrebbe avere il videoclip ovvero quello non solo di promuovere, ma di potenziare la canzone, darle un valore aggiunto visivo che la completi e la esalti.
Last but not least c’è un criterio musicale, che è chiaramente molto soggettivo. Crediamo fermamente che il video migliore accompagna una canzone che già è di partenza interessante e con un’essenza forte, che grazie al video poi si esalta. Difficilmente ho visto grandi video associati ad una canzone o traccia “brutta”. Poi per carità, de gustibus non dispuntandum est, ma anche un criterio di selezione musicale è per noi molto importante.
Dopo aver visto migliaia di videoclip negli ultimi anni pensi di aver individuato delle tendenze? Dove sta andando il videoclip?
Non saprei dirti se è definibile come una vera e propria tendenza, ma a livello stilistico e narrativo possiamo sicuramente dire che la “scuola spagnola” abbia, negli ultimi anni, positivamente shakerato l’ambiente e mutato un po’ le carte in tavola. Creando in patria un vero e proprio nuovo mercato e fungendo da nuovo stimolo anche per gli altri paesi del vecchio continente. I CANADA hanno tracciato un solco che è stato poi seguito da altri grandi registi come Maestres o Masferrer solo per citarne alcuni posizionandola come nuovo punto di riferimento per l’intero settore.
UK e Francia avevano già grande tradizione e direi che l’hanno bene o male mantenuta, mentre invece ho notato negli ultimi due anni un fermento importante nei paesi dell’ex Unione Sovietica da cui stanno arrivando lavori davvero importanti sia a livello musicale che visivo.
Se la mia generazione era cresciuta sotto il mito dei grandi innovatori del videoclip come Cunningham, Gondry, Romanek o Akerlund che con il loro lavoro impersonavano praticamente la tendenza, ora noto che ci sono più dei “mood” territoriali o urbani che sono spesso riconoscibili piuttosto che il singolo esponente. E sono molto contento che queste “influenze territoriali” comincino ad essere sempre più eterogenee.
L’unico caso davvero a se stante è secondo me quello di Martin De Thurah, che è riuscito a portare avanti una sua specifica poetica cinematografica, già presente nel suo primo cortometraggio Ung Mand Falder del 2007. Lo stimo molto e sono molto molto contento che abbia poi trovato nel videoclip il territorio adatto per esprimere il suo enorme talento. Lui, come penso per tanti, è sicuramente uno dei miei registi preferiti ed è quello il cui stile è più identificabile. Sono molto curioso di vedere le sue prossime opere.
Mentre in Italia…
In tutto questo discorso, purtroppo, spiace non notare il medesimo fermento anche nel nostro paese che, a parte qualche eccezione, è un po’ indietro sotto questo punto di vista. Penso che il problema risieda prima di tutto nella produzione discografica e nel ruolo che si decide di dare in fase di registrazione e promozione di un disco o di un singolo al videoclip.
È un peccato perché negli anni Novanta eravamo un’avanguardia indipendente e avevamo sviluppato un nostro linguaggio, pur nella sua semplicità dettata dalla mancanza dei budget anglosassoni. Penso che da noi l’occasione data dalla rivoluzione digitale non sia stata colta e seguita, o forse sottovalutata.
I registi validi in Italia ci sono e sono tanti, giovani e meno giovani, ma da soli possono fare poco se non stimolati. Prima dei budget si dovrebbe discutere di idee, che un po’ mi sembra manchino e penso perchè non stimolate, perchè spesso mi sembra di capire si veda il videoclip più come un fastidio obbligatorio che come un vero e proprio strumento per raccontare ed esaltare l’artista e la sua musica.
Il caso “Liberato / Lettieri” è abbastanza esemplificativo, quando si è deciso di dare un ruolo primario nella produzione di un’immagine e di un’identità di un’artista al videoclip l’effetto è stato poi deflagrante e il cosiddetto “hype” creato da quella narrazione pazzesco. Negli ultimi periodi ha cominciato a muoversi qualcosa secondo me, ci sono voci molto interessanti anche da noi, che mi piacerebbe potessero avere la possibilità di cimentarsi con le realtà di cui parlavo sopra.
Il ruolo della nostra sezione è anche quello. Vogliamo che Soundies sia una scatola che contiene cose diverse, che pensano fuori dalla scatola, innanzitutto bellissime e ben fatte, ma che possano stimolare una crescita di questo settore anche da noi.
Oltre al concorso internazionale, altrettanta rilevanza va data alla sezione “The Real World?”, quest’anno intitolata “Black is” e dedicata al movimento Black Lives Matters, in accordo con quello che è il fil rouge della settima edizione di Seeyousound. Perché avete deciso di incentrare il Festival proprio su questa tematica e come avete poi lavorato nello specifico su questa sezione videoclip?
Il videoclip penso debba leggere ed interpretare il contemporaneo. Sin da quando ho preso in mano questa sezione ho pensato a Soundies come un vero e proprio spazio di ricerca. Nel 1993 la scoperta di MTV Europe e VIVA Zwei mi aveva aperto un nuovo mondo e una finestra su territori davvero sconosciuti che, allora, non avevo ancora visto. Il titolo “The Real World?” non è dato a caso, ma è il punto focale della nostra ricerca, una domanda diretta al nostro pubblico dove ci mettiamo in gioco presentando una narrazione della realtà e della contemporaneità attraverso il registro del videoclip e dove chiediamo al pubblico un giudizio e se il videoclip è o non è uno strumento attuale ed adeguato per raccontare la realtà che ci scorre e vive accanto.
Nell’ultimo anno oltre al Coronavirus era impossibile non udire questo urlo di dolore, di autodeterminazione e di aiuto del movimento Black Lives Matter, un urlo che non era solo politico, ma che era anche una richiesta di legittimità e di riconoscimento culturale. Ciò ci ha dato l’occasione di riprendere cose di cui avevamo già parlato e che avevamo già presentato (sempre in The Real World? in SYS V dove vi era stato un minifocus chiamato “Make America Great Again” dove raccontavamo due anni di presidenza Trump attraverso la voce di 3 artisti neri e in SYS VI dove avevamo all’interno del grande focus “There’s no such thing as society” sulla Brexit e la storia dell’Hip Hop britannico inserito alcuni video di artisti di colore che ci fornivano un altro punto di vista) e ricontestualizzarle alla luce di questi eventi. Il titolo invece è dato dall’album spontaneo dei Sault uscito l’estate scorsa. Spontaneo perchè dettato da un’urgenza e perchè definente di uno stato, di un modo di essere, di una cultura.
Non volevamo che il focus avesse solo un tema politico, ma volevamo desse uno sguardo soprattutto culturale. Sono infatti per me molto importanti sia il video di Yseult, un’artista francese strepitosa sia i due inserti italiani Sixteen di J Lord diretto da Johnny Dama e soprattutto Foreplay di David Blank & PNKSAND diretto da Delia Simonetti, che è un piccolo capolavoro e manifesto di una comunità black italiana, che non aveva mai avuto voce e visibilità prima, e che è molto diversa nei problemi da quella americana. Sono molto contento che siamo riusciti a dare ampio spazio e visibilità a questo progetto davvero importante.
In generale, tramite questa selezione cercate di ricordare agli spettatori il valore del videoclip come “barometro” delle tensioni sociali contemporanee. Ti domando se e in che cosa il videoclip differisce rispetto agli altri media audiovisivi nel racconto della contemporaneità e per quale motivo il videoclip meriterebbe una maggiore attenzione da parte della critica e degli spettatori?
Il videoclip è per me, che sono notoriamente prolisso, un grandissimo esercizio e stimolo alla sintesi. Un modo di comunicare quello che sento e penso in maniera diversa. Il ridurre un racconto alla sola forza delle immagini che devono associarsi ad una musica con la necessità però di comunicare un enorme significato.
E’ un formato che ha incredibili possibilità e che non rischierà mai di diventare obsoleto, lo ha dimostrato la storia recente. E’ un formato liquido che può comprendere tante arti e che come un camaleonte si adatta alle esigenze del contemporaneo, e proprio per quello è, a mio modesto avviso, uno dei formati migliori per raccontarlo. Soprattutto oltre che un esercizio alla sintesi, esso È la sintesi, a causa dei limiti imposti dalla sua funzione.
È un formato che ha una legittimità artistica importantissima ed è per quello che, in condizioni normali, ci piace molto l’idea di proiettarlo su uno schermo cinematografico. Traslare questo formato dandogli un “palco” più grande e importante e una legittimità artistica. Il farlo uscire dal piccolo schermo del pc, speriamo ne aiuti l’impatto e la visione sul pubblico, aiuti ad approfondirne e comprendere le sfaccettature tecniche e narrative. Aiuti a infondere curiosità e ad allargare la visuale.
Ricordo ancora con enorme piacere l’applauso spontaneo in sala dopo la proiezione di Witch Doctor dei De Staat prima di un film. Molti a fine proiezione mi dissero di essere stati travolti dall’impatto sul grande schermo di quella visione e che mai avrebbero apprezzato così tanto quel video da un semplice computer. Quello fu uno dei momenti in cui capì che quello che stavamo facendo aveva senso e che bisognava lavorare di più e continuare su quella strada.
L’anno scorso avete espanso il lavoro del vostro Festival con altre iniziative, penso in particolare alla rassegna Videoflow presso lo spazio Recontemporary. Avete intenzione di riprorre una cosa simile anche quest’anno? Avete altri progetti in mente?
Per “Videoflow” ritorna il concetto che avevo espresso prima e che per me è molto importante, ovvero quello dell’urgenza. Recontemporary ci chiese l’estate scorsa di pensare a qualcosa che potesse adattarsi a quegli spazi (meravigliosi e ideali per il nostro lavoro). Eravamo appena usciti da mesi di chiusura in cui tante cose avevano albergato le nostre menti, molti, troppi pensieri. Il discorso con loro ad inizio anno era nato per cercare un nuovo spazio fuori dalla cornice del Festival per ampliare il nostro discorso di ricerca sul videoclip e fidelizzare il pubblico di appassionati in un contesto che non rischiava di fagocitarlo tra gli altri contenuti e che ci permetteva di accompagnare il pubblico durante tutto l’anno.
Negli intenti doveva diventare un appuntamento fisso mensile che volevamo piano piano potesse anche magari diventare un appuntamento per l’industria, un po’ come in città aveva già fatto benissimo per l’animazione Emiliano Fasano con “Aperitoon”. Purtroppo le regole del distanziamento sociale ci impedivano di poter realizzare quella prima idea, e hanno così stimolato la nostra creatività.
Oltretutto uscivamo dal cinema per entrare in una galleria di arte contemporanea e quindi anche l’approccio curatoriale doveva essere diverso. “Videoflow” nella mia testa l’ho pensato come una vera e propria mostra dedicata al videoclip dove in ogni appuntamento analizzavamo i dualismi contrapposti che questa pandemia aveva creato.
Un tempo eccezionale in cui sembrava non fossero previste eccezioni con sentimenti e idee totalmente polarizzati. Ogni settimana 5 video mandati in loop continuo come un flusso di coscienza raccontavano il mio lockdown, la tempesta di immagini che dopo 30 giorni di solitudine aveva cominciato ad abitare e a presentarsi nella mia mente. Senza parole, in immagini e musica. Marika ed Alessandro mi hanno aiutato tantissimo per tradurre al meglio questo concept. Ogni settimana raccontavamo così i concetti di Visibile e invisibile, Reale e Virtuale, Futuro e Non Futuro, Contatto e Alienazione, Silenzio e Rumore.
Divenne così il naturale proseguimento della ricerca di “The Real World?”, con Videoflow avevo raccontato la mia realtà e il mio lockdown, avevo raccontato con i videoclip quello che mi accadeva intorno e come lo stavo vivendo. La visione prevedeva una brevissima guida, davvero minuscola, perché volevamo che ogni spettatore interpretasse a suo modo questo concept partendo dal tema di discussione.
La mia contemporaneità, aiutandomi a tradurla era diventata anche quella di Marika e di Alessandro, partendo da un formato comune ognuno aveva costruito la propria narrazione. Tutto ciò derivava da un’urgenza, quella di direzionare in maniera positiva un periodo tanto unico e particolare della nostra vita. Cercare di tradurre le ansie, lo smarrimento di quei mesi in una forma positiva.
Al momento non possiamo sapere come potrà essere la situazione quest’estate. Sicuramente appena si potrà vorremmo riprendere il discorso degli appuntamenti mensili, ma ho paura che per quello ci vorrà ancora del tempo.