Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
È difficile dire se sia peggio l’appoggio alle teorie negazioniste, la sua voce associata a quel viso così invecchiato e barbuto oppure il fatto che abbia girato un video in verticale. Di certo l’invito a manifestare contro l’uso delle mascherine da parte di Miguel Bosé (con la formula già mitica Yo soy la resistencia) alimenta qualche dubbio sul suo stato mentale, e di certo non aiuta il tentativo goffo di rimediare all’accaduto con quest’altro video.
La sua stessa madre Lucia Bosé era stata una delle prime vittime celebri del coronavirus, eppure questo non sembra averlo convinto più di tanto. D’altronde le mascherine sono scomode, appannano gli occhiali e bisogna cambiarle in continuazione. E così Miguel Bosé, che ricordiamo essere figlio di uno dei più celebri toreri spagnoli della storia, non può sopportare questa cosa così scomoda, così fisicamente stancante come la mascherina.
Ne abbiamo sentite tante nel corso dello scorso anno, ma più o meno tutti i tentativi di negare l’emergenza sanitaria o le misure adottate (da non confondersi con l’inadeguatezza o lo sconcertante dilettantismo che alle volte hanno dimostrato i governi nazionali) sono stati fatti da parte di partiti politici e personalità inneggianti a un’idea assai nazionalista dello Stato.
Quello stesso nazionalismo, soprattutto nella sua natura così legata ai luoghi comuni e all’ignoranza, è il tema della canzone Inno nazionale di Luca Carboni. Il cantautore se la prende in realtà con quel sentimento “anti-italiano” che, grazie soprattutto allo sdoganamento di alcuni pensieri da parte della Lega Nord fondata qualche anno prima, aveva trovato gran risalto negli anni ’90. La stessa Lega Nord che nel 1994, l’anno in cui Carboni ha scritto la canzone, era alleata anche se (provvisoriamente) per poco con gli eredi del partito nazionalista per eccellenza, quella Alleanza Nazionale ormai perduta nel mare della politica italiana e risorta grazie a Giorgia Meloni e ai suoi uomini. Ecco, quel partito così anti-italiano è ora il partito più nazionalista che ci sia (un riassunto molto bello lo possiamo trovare in Goodbye Bossi de Il terzo segreto di satira).
In Inno nazionale troviamo una critica a queste divisioni interne: “Sì noi siamo troppo orgogliosi / Loro sono troppo veneziani / E anche dentro la stessa città, / Siamo sempre troppo lontani!” Che si aprono anche a un discorso sui confini, sui rapporti con ciò che si trova dall’altra parte di un limite, dello stesso muro simbolo delle grande divisioni della storia: “E noi siamo troppo chiusi, / Loro son troppo altoatesini / E anche se è caduto il muro, / Abbiamo sempre troppi confini!”.
Ma sarà nella versione spagnola della canzone che si cercherà di evolvere il tutto in una prospettiva davvero internazionale. Da “inno nazionale” diventa “inno mondiale” parlando delle diverse barriere che i popoli mettono, nella loro ossessione per marcare distanze e differenze: “Yo soy muy muy argentino / Tu eres muy americano / El es muy muy aleman / Vosotros soy muy franceses / Somos todos muy orgullosos”. E chi è l’autore del testo di questa versione spagnola così anti-nazionalista? Ovviamente il nostro carissimo eroe della resistencia Miguel Bosé!
Chi di certo ha da sempre avuto la propensione internazionale è il regista del promo Alex Infascelli. Per accompagnare questa canzone decide di dirigere un video assai particolare, un meta-video che racconta delle riprese impossibili, appunto, per la realizzazione di un videoclip per Luca Carboni. Tutto è al suo posto: la band, le luci, la troupe. Però un cecchino nascosto in qualche lontano grattacielo ha deciso che le cose saranno ben più complicate.
L’immagine quasi fissa sul palco dove la band suona e i continui zoom sui singoli componenti e staff quando colpiti dai colpi dell’assassino, sembrano ricordare il video di Imitation of Life che i R.E.M. gireranno quasi dieci anni più tardi nel 2001. Il video ha la capacità di creare un’atmosfera da thriller, costruendo pian piano la sua trama, uccidendo senza fretta uno ad uno tutti i malcapitati che hanno deciso di essere li, su quel set, quel giorno. La bandiera bianca nel finale è il simbolo definitivo della resa ai luoghi comuni e all’impossibilità di contrastare efficacemente tutto quello che è denunciato nel testo della canzone. L’impossibilità di capire la violenza e la negazione dell’esistenza della stessa. L’impossibilità di capire tutte le contraddizioni che ci circondano.