Fotoromanzi – Il classico senza classicismo, una rubrica di Alberto Beltrame
Tra il 2008 e il 2012 Pablo Larrain scrive e dirige una serie di film destinati a entrare con prepotenza tra le opere cinematografiche più importati del nuovo millennio: Larrain dà vita alla sua trilogia sul Cile di Pinochet. Inizia con Tony Manero, il racconto di un uomo ossessionato per un personaggio cinematografico, che si muove a suo agio nella folle violenza che sta crescendo nel Paese. Nato come un gioco, si trasforma in una serie di crimini sempre più efferati e sempre più giustificati dal fatto di non venire nemmeno presi in considerazione: una nuova normalità che pian piano si erige a paradigma di una nazione.
Il secondo capitolo è Post Mortem, dove la brutalità del colpo di stato contro il governo di Salvador Allende è narrata dall’interno di un obitorio, il quale si riempie sempre più con lo scorrere del tempo di nuovi cadaveri, con i morti che nel finale non trovano più spazio e ricoprono ogni centimetro dell’ospedale.
Nel terzo capitolo No, quello che ci racconta del primo atto di liberazione nazionale, il clima sembra essere più leggero, speranzoso e “felice”. Ma è solo una facciata: quel referendum contro Pinochet che è il trionfo della democrazia dopo anni di spietata dittatura, è allo stesso tempo e soprattutto il trionfo inesorabile del ‘modello americano’, l’inquietante dominio della pubblicità e del marketing sugli ideali di lotta, resistenza e mondo nuovo.
La nostra trilogia di fotoromanzi sul Coronavirus ha voluto prendere quella di Larrain come modello. Si è cominciato con un video di Ligabue che in modo un po’ goliardico presentava una possibile messa in scena della catastrofe: nasce tutto come un gioco ma la tragedia è lì che aspetta.
Poi si è voluto andare più sul pesante con l’apocalisse programmata dei CSI, la fine di un gruppo musicale, il non ritorno per qualcosa di ormai già accaduto, la celebrazione di una futura assenza.
Nel capitolo conclusivo invece non parliamo della fine del mondo come nei due precedenti, ma affrontiamo in maniera seppur scherzosa e di facciata più leggera la cosa più inquietante di tutta questa faccenda, come e dove tutto è cominciato: la totale sottovalutazione di un virus che sembrava essere poco più di un’influenza e la sfacciataggine con la quale s’ironizzava o addirittura s’infieriva cinicamente contro il popolo cinese. In poche parole: abbiamo volute fare i fighi e fregarcene di qualcosa di tragico solo perché ci sembrava così lontano da noi, solo perché apparentemente non ci riguardava. Abbiamo voluto fare i fighi perché per la nostra società le cose importanti sono altre, ad esempio la cura del corpo e i prodotti di bellezza.
In maniera quasi sorprendente, seppur nella grande ironia surrealista in stile Elio e le Storie Tese, questo videoclip ci mostra com’era la capitale della regione italiana più colpita dal virus, nella totale promiscuità tra Elio e Gianni Morandi con la comunità cinese di Milano (una delle comunità cinesi più grandi d’Europa).
E ci fa ricordare com’erano le prime settimane in cui si cominciava a parlare del virus, l’ennesima scusa per dar sfogo agli istinti razzisti più beceri e ignoranti. Ma non ci riguardava. Era un virus cinese, dai cinesi per i cinesi. Noi, gli italiani fighi, e loro, i cinesi brutti, sporchi e cattivi. Solo un preludio a quello che sarebbe successo da lì a qualche giorno: loro, i fighi del resto del mondo, e noi, gli italiani brutti, sporchi e cattivi. E poi la ricerca dell’untore, la negazione, la follia globale. Tutti in competizione insomma per essere i più fighi, trovandosi poi tutti, compresi coloro che più che fare i fighi fanno proprio i bulli (Donald Trump e Boris Johnson), a mettere in atto le stesse identiche procedure fatte in Italia.
Non è la prima volta che Elio e le Storie Tese mettono in scena lo scambio culturale tra diversi Paesi. Nel 1992 esce il videoclip della canzone Pipppero®, che ci parla di una bizzarra collaborazione tra l’Italia e la Bulgaria con gli Elio che si ritrovano ad andare dai bulgari per effettuare lo storico scambio tra Ramaya e il loro ballo nazionale, il Pipppero appunto.
In comune con il video di Fossi Figo la scelta di utilizzare dei sottotitoli per esplicitare pensieri e dialoghi inascoltabili. Scelta abbastanza eccentrica e innovativa nel panorama del videoclip all’italiana di inizio anni Novanta, tanto quanto tutto ciò che riguarda il racconto al di là della canzone, con un’introduzione e un finale, oltre che l’intermezzo con Claudio Bisio.
Forse non sono figo, forse no
Ma sono bello dentro, dentro
Fuori stranamente mi vedete come un solitario
Ma a me piace stare con la gente
Nel video di Fossi Figo seguiamo una giornata di Elio e Gianni Morandi nella “Milano cinese”, tra grandi corse e dialoghi sul senso della vita estetica. Una Milano pre-contagio, in cui ci si può abbracciare e soprattutto si può andare a correre, addirittura in coppia, un lusso ormai perduto. Un 2003 che sembra allora così lontano dai giorni nostri, quella tranquillità pre-bellica, la possibilità di parlare d’estetica e poterci ridere sopra. Un’epoca in cui gli Elio e le Storie Tese non si erano ancora sciolti e Morandi non aveva ancora vinto un Oscar. Un’epoca nella quale pensavamo ormai impossibile lo scatenarsi di un’epidemia, almeno di un’epidemia a casa nostra.
L’epidemia che si spande,
L’isolamento è un dovere oramai…
Dare la mano è vietato, se mai
Soltanto un dito e l’errore
Punito sarà…
«Lottiamo così come si gioca», noi cuccioli di questo inizio 2020, chiusi in casa, messi in quarantena con ancora qualche figo che se ne continua a girare come se niente fosse. Eppure qualcuno aveva previsto tutto questo, bastava solo andar a cercare negli archivi della nostra Storia. Non è un videoclip, ma non poteva non essere citato in una rubrica come questa e ci sembra essere il finale perfetto per questa trilogia di articoli sul virus (ringrazio Nicola Marceddu per la segnalazione). Buon contagio a tutti!